…i problemi che tutti abbiamo nella quotidianità, nel lavoro, nei rapporti umani e nell’evoluzione non bisogna chiuderli nella propria individualità; penso che viaggiare sia un modo per aprirli al mondo ed anche a se stessi.
Liberarli ad altre situazioni, ad altre visioni…
Un viaggio solitario verso l’Oriente mi aveva portato in Cina, meta voluta da forti sentimenti che mi avevano agitato la fantasia qualche anno prima in una delle numerose China Town degli Stati Uniti.
La curiosità e l’interesse di vedere “terre lontane” nasce proprio da avvolgenti sensazioni che con il passare del tempo, coltivate e seguite, danno vita ad un forte desiderio legato alla propria libertà.
Quando ti nasce un’idea e chiari sentimenti te la fissano dentro, non riesci a dividere la curiosità e l’interesse dall’euforia, ma vivi una forte passione che ti libera intorno una leggera aria profumata di sogno.
Vivevo allora una stupenda emozione guardando i visi sorridenti dipinti dalla faticosa ed irrequieta quotidianità dei Cinesi tutti vestiti di stoffa verde e blu. Il loro tempo mi affascinava nell’odore di antico spruzzato dalla storia dei palazzi e dei templi; mi incuriosiva nella loro condizione sociale intricata e difficile ma stupendamente dignitosa e sufficientemente organizzata visto il numero di uomini che quella Nazione sorregge.
Mi cullavo in quella atmosfera di colori, di odori, di suoni e di movimenti così diversi e così lontani dalla mia terra che avevo lasciato salendo su un aereo.
Strappato dalla mia realtà e gettato in altre completamente diverse, in così breve tempo, sentivo che mi mancava il collegamento fisico, il passaggio sensuale del percorso terrestre che dall’Italia mi portasse là.
Fu così che nella fredda Pechino, una sera d’autunno dipinta da una fine nebbiolina accesa da tremolanti luci e secchi vocii, i miei sentimenti, presi dalla fantasia e dalla passione liberarono in me l’eccitante sogno di percorrere il plastico rilievo della terra, dal mio lago fino a questa città.
Subito percorsi mentalmente quella linea di congiunzione, come segnandola con un dito su una carta geografica, linea che attraversava un susseguirsi di storia, arte e cultura tra le più antiche del mondo.
Racchiusi il sogno dentro di me e lo portai amico del mio tempo per tutti questi anni fino al 1989 quando, come d’incanto, si fece realtà.
La sua materializzazione iniziò un anno prima quando incontrai alcuni amici di Lecco che cullavano da tempo la stessa idea, così insieme iniziammo a realizzarla.
Per prima cosa occorrevano i contatti sicuri con gli interlocutori giusti che ci permettessero di trovare le soluzioni agli ostacoli burocratici che l’organizzazione del viaggio comportava.
Inoltre serviva verificare tutte le informazioni sul percorso, la viabilità, le condizioni, i rifornimenti, gli eventuali alloggi, ecc…
Nel frattempo proseguiva attenta la preparazione dei mezzi meccanici: tre pulmini Volkswagen, avanti negli anni ma sicuramente ancora in grado di effettuare questo tragitto.
La costruzione del viaggio soffriva a volte seri problemi quali i permessi sul percorso cinese, il suo elevato costo di pedaggio, i gravi fatti di piazza Tien An Men, la situazione poco chiara dell’Iran e la Karakorum highway distrutta dal disgelo.
Ma l’entusiasmo e l’insistenza ci portarono alla completezza organizzativa. Il sogno era stato estrapolato dalla sua natura inconscia, ad esso era stata donata la libertà materiale e noi potevamo viverlo fisicamente.
Lecco, mezzogiorno del 16 luglio 1989 “si parte”. L’equipaggio è formato da dieci persone e tutti in quel momento veniamo avvolti dall’emozionante visione dell’arrivo a Pechino.
Ricordo che seduto al volante, sentivo il cuore gonfio di felicità battermi forte nel corpo eccitato ed una riflessione mi portò alla vita: sognare e seguire la propria fantasia non fa di essa una natura superficiale e illusoria, ma la rende più leggera, più vera e più completa; i problemi che tutti abbiamo nella quotidianità, nel lavoro, nei rapporti umani e nell’evoluzione non bisogna chiuderli nella propria individualità; penso che viaggiare sia un modo per aprirli al mondo ed anche a se stessi.
Liberarli ad altre situazioni, ad altre visioni, a diverse realtà, scambiarli con altre razze e culture, credo sia un modo per conoscerli e migliorarli, per sognare la vita e viverla nella sua grandezza.
Ricordo un pensiero di un grande esploratore di un tempo, che diceva: “Quando viaggi e scopri il mondo, ne riduci la sua dimensione perché diventi tu più grande”.
Con questi pensieri, schiacciavo l’acceleratore su un nuovo percorso che andava aprendosi alla mia vita.
La Jugoslavia con la sua campagna opaca macchiata a volte da nere fabbriche, la percorriamo veloci, incrociando dai finestrini lo sguardo cupo e annoiato della gente, soffocato dall’opprimente architettura “socialista”, che la rende anonima e grigia.
Poi la Grecia, sotto un sole lucente che tinge di color oro le sue colline aride, quasi a mostrarne la ricchezza di un tempo, con quei volti così mediterraneamente scolpiti di uomini al bar, di bimbi vivaci, di anziane donne e di preti ortodossi come nere pennellate su una tela bianca a sfondo celeste pastello.
Tracce dell’Islam, timidamente scorte in Jugoslavia ed in Grecia, diventano imponenti qui ad Istanbul.
Le sue cupole, i suoi minareti e la sua gente, rese ombre da tramonti rossissimi, mi avvolgono di cultura e storia che la vuole “la porta d’Oriente”.
I bagliori dei bazar, le fantasiose e forti tonalità di colore, il caos cittadino, la ricchezza e la miseria tutto insieme in un movimento affascinante e chiassoso.
Il vero viaggio inizia qui, nel giallo colore dei girasoli che copre le dolci colline e i tondeggianti orizzonti, mossi da intere famiglie al mesto lavoro, guidato da sereni sguardi di chi sa che il peggio è passato o sta passando.
La Turchia è molto cambiata in questi ultimi anni nella sua rincorsa all’immagine occidentale di un benessere forse positivo o forse no.
I bimbi come furbe e curiose presenze nei villaggi e per le strade ci accompagnano dall’Anatolia al Kurdistan, terra irrequieta, racchiusa nel suo altopiano da ripidi monti e ingiuste dicerie di popolo ostile.
A me sembrano invece cordiali e gentili con quei volti induriti dal duro lavoro e dal desiderio di sentirsi liberi nella propria storia e cultura.
Il monte Ararat reso visione dalla calda foschia mattutina ci indirizzò all’Iran. Mi incuriosiva il pensiero di un luogo dove la recente guerra si leggeva nello sguardo con la gente.
Da bambino, quando mio padre raccontava fatti di guerra, fissavo le immagini di quel tempo su figure tristissime e visi carichi di disperazioni avvolti da un grigiore mai colorato da un raggio di sole.
Così ora soffrivo le stesse emozioni nel luccicare del filo spinato dei posti di blocco con lo sguardo altezzoso dei soldati trasandati e lenti, sotto un sole cocente che oltre a bruciare i colori, bruciava lentamente anche la mia pazienza. E pensare che l’Africa mi aveva abituato a situazioni di frontiera dove il tempo perde la sua identità a noi consona.
Ricordo lo sguardo severo, fissato da una grande fotografia, dell’Iman Komeini (in quel periodo era ancora tempo di lutto per la sua scomparsa) appesa sul muro di un opprimente salone dove rinchiusi attendevamo il visto d’ingresso in una calca impaziente e un caldo asfissiante.
Ricordo anche il silenzioso tramonto ormai al crepuscolo nel quale i miei occhi muovevano finalmente lo sguardo su gruppi di facce barbute e bancarelle povere, nelle prime ombre di un popolo all’impressione gentile.
Alcuni giovani studenti di Tabriz mi spiegarono la loro difficile condizione nella repressione fisica ed intellettuale che il potere politico-religioso esercitava attraverso il fanatismo e la delazione.
La tristezza mi strozzava la voce quando esprimevo la mia contrarietà e mi sentivo sleale nel raccontare la libertà del mio viaggio perché leggevo nei loro occhi la loro rabbia di chi soffre le ingiustizie ma capivo la loro voglia di sapere e conoscere per aiutarsi a vincerle.
A Teheran era tempo di elezioni e grandi manifesti raffiguranti Komeini e Rasfajani che invitavano al voto per un futuro secondo le intenzioni più moderato, più elastico e di maggior apertura verso l’Europa.
Lasciamo il nervosismo della capitale prigionieri di un traffico pazzesco mentre dei murales con satirici disegni di politici occidentali ci accompagnano alla periferia dove scorgiamo cumuli di rottami di mezzi militari e mitraglie antiaeree ancora appostate nei piazzali di qualche fabbrica.
Penso che qui lentamente la vita stia cambiando nella gente che mostra una legittima voglia di divertirsi e di dimenticare il passato. Invece a Qom, città santa, si respira aria di radicalismo e subiamo impotenti il fanatismo di alcuni pasdaran che ci sequestrano per una presunta offesa al loro Dio, Allah.
Discuto con i miei compagni di queste grosse contraddizioni mentre percorriamo il terreno desertico del Lut interrotto solo da caotiche città e polverosi villaggi.
Qui il traffico è fatto solo di grossi camion che vanno e vengono dal porto di Bandar Abbas; la sera all’imbrunire l’orizzonte è chiuso da neri rilievi nel grande cielo giallo e rosa, in un incantevole paesaggio nel quale vecchi caravanserragli fanno correre la fantasia ai feroci guerrieri e alle pittoresche carovane dall’aria di un tempo mistica e fiabesca.
A Zaedan il deserto del Lut entra nel Belucistan e per le strade e nei bazar i volti irani si mischiano a quelli turchi, mongoli, beluci e afgani rendendo l’atmosfera interessante e tesa.
Il traffico della droga e il continuo passaggio di profughi impongono ai pasdaran, appostati in torrette di guardia su tutto il percorso di frontiera, un difficile controllo.
Mentre saluto la tristezza e la speranza dei volti con i quali avevo scambiato sensazioni e istinto, mi giunge il lamento soffocato di un campo profughi, recintato da alte reti metalliche sul fianco di un monte e indirizzo gli occhi e la mente in quella macchia polverosa avvolta di miseria e disperazione.
Entro nel cortile della dogana assalito da una profonda angoscia che col caldo asfissiante mi tolgono il respiro.
Di là in Pakistan mi riprendo bevendo una coca cola ghiacciata che una bancarella di prodotti occidentali espone quasi a mostrare un’orgogliosa rivalsa della povertà pakistana all’intolleranza iraniana.
In pochi metri è tutto così diverso nei colori, nei visi, nell’atmosfera rilassante dei pakistani, con lo sguardo incorniciato da grandi occhi neri truccati, le barbe ben curate e dipinte d’henné appese a piccoli cappelli dai colori sfarzosi, la loro struttura asciutta e slanciata di movimenti gentili e regali.
A Taftan le notizie di possibili aggressioni da parte degli afgani nella pista del deserto del Belucistan ci fece proseguire nervosi ed attenti fino a Dalbandin, dove una striscia d’asfalto migliorò il percorso e l’incrociare camion e bus stracarichi di merce e persone diventava un gioco psicologico per chi doveva scendere sullo sterrato.
I Pakistani amano ornare i loro mezzi di trasporto con disegni incredibili di legno e latta colorati, di catene e chiodi luccicanti al sole, richiamando le antiche tradizioni di pittoresche carovane in versione moderna.
Le gialle dune di sabbia scompaiono scure all’orizzonte, mosso da silenziosi passaggi di nomadi a cammello e le figure di curiosi bambini e donne dipinte di colori fortissimi ci guardano immobili dalle loro case di terra in un’atmosfera incantevole.
Nella periferia di Quetta, assaliti dal frenetico formicolio di uomini e mezzi di ogni tipo: camion, bus, taxi, carretti trainati da muli, cavalli, piccoli asini e lenti cammelli, sembra d’essere su un grande schermo dove velocissime immagini riprendono le interessanti abitudini di questo popolo.
Come nei mercati e nei bazar, cuore della cultura e tradizione, dove vecchi volti segnati dalle rughe del tempo mostrano, con pronunciato sorriso e gesti convincenti, incredibili oggetti di ogni tipo utili alla loro quotidianità, nell’aria spruzzata di forti odori e pennellata di intensi colori.
Le donne, avvolte da leggere stoffe dagli accostamenti vivaci nella loro profonda femminilità di un sorriso a viso scoperto ornato di trucco e oro o di uno sguardo sensuale dei soli occhi liberi alla curiosità degli uomini, compaiono allegre nella tropicale campagna che si riflette verdissima nei numerosi fiumi e nei fangosi stagni mossi da pigri bufali e bambini chiassosi.
Nell’afa umida con le fastidiose zanzare della piana dell’Indo percorriamo il difficile tratto verso Sukkur, reso lento e pericoloso dalle strade distrutte dai monsoni e dal traffico pazzesco.
A Lahore, città considerata la perla del Pakistan, mi risveglio all’echeggiare del canto dei muetzin, rivivendo le stupende albe e i malinconici tramonti della Turchia e dell’Iran legati a questa comune cantilena.
In alcuni palazzi noto la loro appartenenza di un tempo alla cultura indiana mentre sfreccio veloce nel traffico cittadino seduto su un piccolo e variopinto furgone, guidato da un folle taxista, che mi porta al grande e prezioso bazar.
È bellissimo perdersi nel profumo delle spezie, nei colori delle stoffe e dei tappeti, nella fioca luce illuminata dal sorriso delle donne al quotidiano shopping, nelle parole d’invito dei mercati negli affollati vicoli e nelle chiassose piazze delimitate da dorate moschee e svettanti minareti.
Questa città è meta di molti turisti diretti al Karakorum con le sue bianche e imponenti montagne che fermano l’orizzonte al confine della Cina.
Si sale nelle strette valli scavate dal limaccioso Indo dove la gente continua instancabile nell’umile lavoro di strappare la vita a piccoli membri di giallo frumento.
La Karakorum highway, tagliata nella roccia è stretta e sassosa e si avanza lentamente nei pochi villaggi di volti e figure scomposte a causa dei molti matrimoni consanguinei. Gli uomini armati combattono una stupida lotta di povera terra e immensi confini di antiche divisioni.
Sentivo l’avvicinarsi del grande momento mentre salivo silenzioso, abbracciato da una fredda tensione di un respiro in affanno, sul Kujerabpass (a circa 5000 metri) prima meta di quella terra incantata che rincontravo ansioso nella realtà di un sogno vissuto.
Un cippo scritto in pakistano da un lato ed in mandarino dall’altro segna il confine e stanchi ci animiamo di parole festose.
Mi siedo per terra in un abbandono fisico, vorrei gridare mentre forti emozioni mi accarezzano infinite; abbraccio il corpo all’anima e in quel momento in un oblio fantastico mi sento penetrare da un grido intenso e sottile di pura felicità.
Discendiamo lentamente in un nevischio agitato dal vento e nella solitudine di cime oscurate dalle nuvole.
A Pirali l’incontro con i visi cinesi allegri e pigri mi riporta ai teneri ricordi di un popolo che mi aveva legato ad una dolce amicizia.
Le pratiche doganali furono seguite da un simpatico ragazzo di nome Ming designato a nostra guida dal Cist (China International Sport Travel), l’ente cinese con il quale avevamo stabilito il programma del viaggio da Pirali a Pechino per ottenere i permessi di transito con propri mezzi nella difficoltà della loro non completa organizzazione per questo tipo di turismo.
Ci vennero consegnate le patenti di guida cinesi ed anche le targhe vennero sostituite. E poi via verso l’immenso orizzonte tagliato da una stretta linea d’asfalto nello spettacolo naturale di una fotografia grandiosa.
La paludosa prateria di un verde tenue a macchie gialle e violette di colonie di fiori calpestati da cavalli, cammelli e qualche jack come piccoli punti chiari e scuri, in leggeri movimenti; il contorno immobile dei monti Tien, avamposto del possente Pamir in un quadro naturale a conformazioni policrome di rosso, grigio, verde e blu, lega in suggestive e spettacolari inquadrature la cornice bianca dei maestosi Maztagata e Kongur Shan di oltre settemila metri di altezza.
Percorrere questa luce chiara in un cielo azzurro, velato da rade e velocissime nuvole ed immerso nell’irreale gioco dei colori, mi faceva volare libero nelle appaganti sensazioni della vita.
Lo Xinjiang è una regione autonoma della Cina, nella quale convivono ancora pacificamente diverse razze di natura e provenienze diverse.
I più numerosi sono gli uiguri, di antiche origini turche con le donne allegre e dipinte dalle lunghe trecce nere legate da numerosi veli e abiti variopinti, gli uomini con pesanti cappotti scuri cavalcano sicuri per le polverose strade segnate da lunghi filari di pioppi e salici ed i bimbi teneri e curiosi giocano con semplici oggetti sotto lo sguardo attento degli anziani.
La lingua, derivata dal turco, che si scrive a caratteri arabi e la religione musulmana si mischiano alla tradizione e alla politica cinesi in una interessante convivenza di abitudini, arte e cultura.
A Kasgar la grande moschea della piazza del mercato è circondata dal bazar ricco e fastoso in contrapposizione alla grande statua di Mao eretta su una moderna via di grigi condomini e opprimenti palazzi, abitati dai cinesi di razza Han.
I Kirghisi racchiusi in enormi colbacchi arrivano dalle loro jurte bianche della prateria, carichi di pelli di animali selvatici cacciati sulle nevose montagne, tappeti finemente tessi e collane di pietre ricercate nelle argillose colline.
I nomadi mongoli e kazaki dallo sguardo intenso e fiero, si mischiano alla folla di mercanti che alla domenica danno vita al più caratteristico ed affascinante mercato della regione.
Lasciamo questa città, un tempo importantissimo crocevia del commercio della seta per entrare a nord-est nel Taklimakan popolato solo da piccoli villaggi di povere case in mattoni d’argilla abitate da gente dura ed instancabile nello sforzo di rendere coltivabile con lunghi canali l’arida piana del deserto.
Vedo uomini, donne e bambini uniti nella lotta orgogliosa della sopravvivenza rispondere al nostro saluto con sinceri sorrisi e mani e braccia agitate festose nell’aria.
A Korla, grosso insediamento voluto dalla politica industriale, la gente è per lo più cinese di razza Han, richiamata qui dal lavoro, nelle fabbriche impolverate e decadenti.
I privati venditori di verdura, favoriti dalla recente apertura alla libera iniziativa, colorano le strade nel traffico di vecchi trattori fumanti, di carretti colmi trainanti da curve e forti spalle e di biciclette veloci, in un movimento frenetico di gente e natura.
Verso Urunqi la strada sale dall’arida pianura su alberate colline e nere macchie gonfie di fumo sovrastano grandi cumuli di carbone, utilizzato dai cinesi per l’uso industriale e domestico, che rende sporca e deprimente la vista della periferia. La città, con moderni alberghi, mastodontici edifici pubblici, grigi casermoni e piccole case è allegra nel vivace sorriso e nella semplicità, cordiale e interessata della gente presa dalla frenetica quotidianità.
La sera, i piccoli ristoranti all’aperto offrono una strana cucina di serpenti d’acqua, verdi tartarughe e alghe di fiume; le giovani famiglie passeggiano tranquille nelle poco illuminate strade e i ragazzi in bicicletta scherzano festosi in un’allegria popolare, che la nostra società ha ormai perso, riunendosi poi in affollate balere di canti e balli tradizionali.
La domenica è costume recarsi nelle fresche valli dell’Altaj per il pic-nic sui verdi prati fra le bianche jurte, gli jack e i cavalli degli accompagnamenti kazaki, popolo nomade che divide le stagioni tra questi pascoli e quelli della Russia asiatica del Kazakhstan.
Ripartiamo riposati in direzione sud nella depressione di Hami (100 metri sotto il livello del mare) con un terribile caldo che ci appanna la cruda vista del paesaggio fatto solo di strani riverberi di intensi colori.
L’arrivo a Turfan è stupefacente, quasi un miraggio di questa verdissima oasi rigogliosa di pergolati d’uva dolcissima che coprono le strade di ombra fresca.
A ovest della città nelle Flaming Mountains incontriamo i primi segni di buddismo in un monastero disabitato e deturpato dalla rivoluzione culturale dall’egoismo stupido dei primi visitatori.
Scendiamo tra il deserto del Gobi e l’inizio della catena montuosa che sale verso l’altipiano del Qingai immersi nel paesaggio lunare di color cenere nel fumo e nella polvere di vecchie cave di calce e primitive fabbriche di cemento ancora sfruttate nel mortale lavoro da uomini duri, coperti come mummie, di bianchi stracci e desolanti immagini.
La tappa Hami-Dunuhang è molto dura e difficile, la pista poco segnata e l’insidia di dune sabbiose mette a dura prova i nostri mezzi, inoltre una direzione sbagliata ci fa perdere tempo e ci anima di tensione e nervosismo.
Solo al tramonto ci rilassiamo quando ad Auxi una mistica luce violetta di un paesaggio stupendo, disegnato da piccole torri di guardia e tonde colline sfumate all’orizzonte, ci fa volare veloci e sicuri sulla strada ricoperta da un asfalto nuovo ai cui margini pascolano silenziose le immobili “ombre” di pecore e cammelli.
Dunuhang, l’antichissima oasi situata nel punto d’incontro tra i deserti del Taklimakan e del Gobi con l’altipiano del Kunlun, fu un tempo il passaggio obbligato delle vie commerciali verso l’occidente, nell’intersezione di razze, culture e religioni delle carovaniere in transito.
Oggi rimane, ad immagine del glorioso passato, un tesoro buddista a Magao (le grotte dei mille Buddha) difeso nella storia dagli invasori, dall’avvento dell’Islam e dalla rivoluzione di Mao.
È immenso il lavoro dei templi appoggiati sul lato verticale del monte, delle grotte scavate nell’argilla e decorate di splendidi affreschi narranti storie sacrali tra le statue gigantesche dei Buddha.
La fama di meraviglia e sacralità di Dunuhang, citata anche da Marco Polo, come luogo di intensa attività spirituale, si è molto affievolita in questo secolo, specialmente dopo la rivoluzione culturale.
Questo si nota nel completo distacco della gente, attenta solo al vivere quotidiano e alla scoperta di un progresso invadente. Nella regione di Gansu incontriamo le prime espressioni dell’arte pura cinese, nei suoi fastosi palazzi imperiali posti all’inizio occidentale della Grande Muraglia.
Questa immensa opera, fatta di enormi blocchi d’argilla compatta allineati sulle gobbe dei colli, testimonia le inimmaginabili fatiche, le molte paure e le sanguinose battaglie di un tempo.
Lo Huang He, mitico fiume giallo, ci fiancheggia nel tratto di strada verso Xining, capoluogo della regione del Qingai, aperta al turismo solo nel 1987.
Molti insediamenti di cinesi della razza Han lavorano la verde campagna delle grandi vallate e nei numerosi villaggi intere famiglie trebbiano il grano, battendolo e poi buttandolo in aria per eliminarne la pula.
Fumanti trattori percorrono lenti la verde piana di ortaggi e frutteti, rotta solo da povere case dal tetto concavo, che richiama l’architettura classica dei templi.
Risalendo l’altopiano intorno al lago Koko Nor, scorgiamo le scure tende degli accampamenti tibetani con intorno nervosi cavalli e grossi yak dal lungo pelo nero al pascolo.
Lo sguardo scavato nel viso di un’anziana donna che tiene in braccio un bimbo, arrossato dal vento e dal freddo, mi mostra la difficile e sofferta vita di questo popolo così orgogliosamente tenace.
Il Qingai ed il Tibet sono la culla della spiritualità ispirata al lamaismo, ed è facile incontrare gruppi di pellegrini, coperti dai pesanti vestiti di lana di pecora e yak e coi loro grossi cappelli di feltro, che silenziosi si dirigono verso i numerosi monasteri.
Li osservo curioso, nella profonda fede e nel mistico slancio delle loro preghiere, al monastero di Tà Er, a sud di Xining, immerso nel pacato silenzio, percorso dal cigolio dei cilindri dipinti delle preghiere rotanti e dal nauseante odore di burro e grasso di yak bruciato nelle fiammelle votive delle sacre cappelle.
I giovani monaci sorridono gentili alla nostra curiosità, dipinti dai loro rossi mantelli e gialli berretti, e rendono le lucide piazze e i fangosi vicoli del monastero dai tetti dorati, una mistica visione di immutata e devota religiosità
Dopo alcuni giorni di pioggia ritroviamo un limpido sole nella campagna di Lanzhou, coltivata in ordinate ed incredibili terrazze che dipingono i monti a mostrare il prodigioso ed instancabile lavoro dell’uomo nello strappare la vita alla terra.
L’ultima immagine di una Cina poco conosciuta la lasciamo ai ricordi, percorrendo il più noto percorso da Xian a Pechino nella straordinaria atmosfera della realtà di un sogno concluso nella sua realizzazione ma ancora vivo nel sorriso dei popoli e nel paesaggio della terra.
È il 4 settembre del 1989.
Testi e foto di Bruno Gaddi
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