Ricordo un Natale di tanti anni fa. Quell’anno, il “Gesù Bambino” di un mio caro zio, mi regalò la raccolta dei racconti illustrati di Kipling “Il Libro della Giungla”. Non smettevo mai di leggerlo e di immedesimarmi nel piccolo Mowgli, il cucciolo d’uomo abbandonato nell’impenetrabile foresta indiana ed adottato da un branco di lupi.

I paesaggi, i personaggi e soprattutto la feroce tigre Shere Khan diventarono presto i protagonisti dei miei sogni di bambina e, fin da allora, il desiderio di recarmi un giorno nei luoghi descritti è entrato dentro di me e non mi ha più lasciato.
Molto tempo è trascorso ma, pochi mesi fa, riordinando la cantina, ho ritrovato il vecchio libro.
Sfogliandolo, ho capito che era giunto il momento. Quel sogno doveva diventare realtà. E così sono partita per l’India, destinazione i Parchi Nazionali del Madhya Pradesh, quegli stessi che hanno fatto da sfondo alle avventure di Mowgli.
Nel frattempo, per altro, avevo scoperto che il suo creatore, Premio Nobel per la letteratura, in realtà in queste zone non ci è mai stato, pur essendo nato e vissuto per lunghi anni nel Paese.



Tra i Parchi ne scelgo due, quello di Kanha e quello di Bandhavgarh perché sono questi quelli in cui c’è la maggior possibilità di avvistare la tigre, lo sfuggente felino dominatore incontrastato di queste giungle.
Il programma è serrato: due safari al giorno, uno alla mattina presto e uno al pomeriggio.
Quando salgo per la prima volta sulla jeep scoperta che percorrerà i sentieri del Parco di Bandhavgarh il freddo è pungente e l’emozione è grande.
Le formalità di ingresso sono piuttosto rigide: possono entrare solo un numero limitato di mezzi autorizzati, a bordo dei quali ci sono un ranger e una guida, e in orari ben precisi. Ciò serve naturalmente a preservare l’incredibile ecosistema che caratterizza queste aree protette.
Pochi minuti dopo avere varcato il cancello di ingresso, siamo già avvolti da una fitta foresta di alberi di sal.
Sotto di essi timidi cervi fanno capolino, ci guardano curiosi e scompaiono nella vegetazione mentre famiglie di entelli si godono il primo sole del mattino.
La jeep si inoltra nel Parco, gli alberi lasciano il posto a spazi aperti che ricordano la savana africana.
Sullo sfondo colline boscose e qua e là zone paludose dove numerosi uccelli nidificano e becchettano in cerca di cibo.
Improvvisamente la jeep si ferma e guida e ranger si sporgono per osservare con attenzione il sentiero polveroso. Proprio lì, davanti a noi, enormi impronte dimostrano che la tigre è appena passata di qua.
Aspettiamo, ascoltiamo, ma niente. Dello splendido felino rimangono solo le tracce.
Proseguiamo inoltrandoci in un labirinto di bambu. Le piante crescono a ciuffi, sono alte e fitte ed è difficile vedere cosa si cela in mezzo a loro.
Poi, di colpo, il silenzio è rotto da strida e versi gutturali.
E’ l’allarme. Tutti gli animali si avvisano.
La tigre è qui, vicina. Urlano le scimmie, urlano i cervi, gli uccelli volano via.
Noi tratteniamo il fiato. La macchina fotografica è pronta. Siamo immobili. Il ranger indica alla nostra sinistra, ma vediamo solo bambu…
E poi, eccola. E’ una femmina, ci guarda un attimo con i suoi enormi occhi verdi e, con calma e sicurezza, attraversa la strada davanti a noi e sparisce nel folto della vegetazione.
E’ maestosa e fiera. Una vera regina. Sarà anche l’unica che vedremo in questo Parco.
Perché sia chiaro, per avvistarla bisogna avere tanta e tanta fortuna (così come bisogna avere fortuna per avvistare i leopardi e gli orsi che pure ci sono).
Basta passare un attimo prima o un attimo dopo per perdere l’occasione.
Resta il fatto che incontrarla è davvero una grande emozione.

Quello che colpisce di più è la sua totale indifferenza nei nostri confronti. E dire che siamo su una jeep scoperta ed azzannarci per lei sarebbe davvero facile.
Ci spiegano che non è mai successo, anche se invece, purtroppo, capita a volte che gli abitanti dei villaggi limitrofi al Parco, che si spostano a piedi o in bicicletta, vengano assaliti e talora addirittura uccisi dal feroce felino tigrato.
Soddisfatti lasciamo Bandhavgarh e ci spostiamo nel Kanha National Park.
Anche qui gli ingressi sono regolamentati e sono previsti due safari al giorno.
La prima cosa che ci fanno vedere sono delle profonde incisioni, a circa due metri di altezza, sulla corteccia di un albero.
Avete presente quando i gatti “si fanno le unghie”? Ecco, i tronchi sono i “graffia mici” delle tigri.
Ci spiegano che in ogni zona del Parco c’è un maschio dominante. Se un altro maschio vuole occupare il suo territorio, prima di sfidarlo, deve riuscire a “farsi le unghie” più in alto di lui. L’altezza delle “graffiate” ci dà immediatamente l’idea di quanto deve essere grosso un maschio adulto…



Nel Kanha c’è più acqua rispetto al primo Parco visitato, piccoli ruscelli attraversano la fitta foresta creando pozze e laghetti intorno ai quali maestosi cervi si abbeverano. Tra questi il raro barasingha, il cervo delle paludi, con l’enorme palco di corna e i dolci daini con il loro mantello a pallini bianchi.
Sembrano Bambi usciti dalle favole, soprattutto i cuccioli.Nelle vaste pianure erbose vediamo correre rossi sciacalli all’inseguimento di famiglie di cinghiali e anche qui abbiamo modo di avvistare numerosi uccelli (ce ne sono più di 300 specie), tra cui alcune civette negli incavi di alberi morti, diversi avvoltoi e qualche aquila.
Percorrendo le polverose piste nella foresta, ancora una volta osserviamo le grosse impronte delle tigri che sembrano prendersi gioco di noi.
Sono proprio dove siamo già passati, ma prima non c’erano.La “caccia” prosegue fino a che raggiungiamo una zona, dove la vegetazione è molto fitta, e dove stranamente non ci sono né entelli, né cervi, né daini e, ci pare, neppure uccelli. L’attento ranger spegne il motore della jeep e resta in attesa.
Un ruggito (qualcuno lo chiama bruito) ci paralizza. C’è, è vicina, ma, anche questa volta, non riusciamo a vederla.
Dopo qualche minuto durante il quale il tempo sembra sospeso, al di là di un gruppo di cespugli alla nostra sinistra, un gigantesco maschio costeggia il sentiero per una ventina di metri e poi, con un balzo, sale su una collinetta e si inabissa nel mare verde che lo circonda.
Non ci degna di uno sguardo, ma dalle sue fauci esce un suono profondo e rauco che risveglia in me gli ancestrali geni della paura.
Ci dicono che è un maschio di nove anni e che questa è la zona dove vive con la sua attuale famiglia, una femmina e tre cuccioli.
Ci spiegano anche che la sua ferocia potrebbe non risparmiare neppure i suoi figli e che spesso i tigrotti vengono uccisi dai loro padri affinché la femmina-mamma possa di nuovo essere fertile.
Forse insomma aveva ragione Kipling a descrivere Shere Khan come una bestia crudele. Io però, dopo averla vista, dopo aver realizzato il mio sogno di bambina, preferisco pensarla come Robertson Davies e credere che “Dio fece il gatto perché l’uomo potesse avere il piacere di coccolare la tigre”.
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