L’attrazione più straordinaria dell’Isola di Pasqua, un mistero lungo millenni: approfondiamo insieme l’origine dei Moai.
L’Isola di Pasqua è un luogo incantato dove miti e leggende si fondono tra di loro. Ne sono una testimonianza perfetta i 397 Moai, le imponenti statue di pietra che guardano lontano verso il mare infinito.
La storia di queste statue è strettamente connessa a Hotu Matu’a, re del magnifico continente Hiva, e a sette esploratori. Leggenda narra che il re Hotu Matu’a affidò ai sette esploratori il compito di trovare un luogo vivibile per la popolazione di Hiva. Gli esploratori, dopo diversi viaggi, approdarono in una piccola isola inabitata ma molto fertile, due condizioni che gli permisero di decretare questo luogo come l’eden tanto ricercato in nome del loro sovrano.
I sette pionieri, per dimostrare la bellezza di questo luogo incantato, decisero di trasportare con sé una collana di perle e un Moai, così da mostrarlo al proprio re. Peccato che la collana di perle sia rimasta, insieme a un solo esploratore, sull’Isola di Pasqua. Trascorsero diversi anni ma un bel giorno il re Hotu Matu’a giunse anch’egli con la sua famiglia e i suoi sudditi sull’isola di Pasqua, allora soprannominata te pite o te huna, ovvero l’ombelico del mondo.
Secondo la leggenda i Moai erano già presenti prima ancora che la vita vera si appropriasse di questi spazi, rappresentando delle vere e proprie statue mitologiche presenti sin dalla notte dei tempi. In realtà gli abitanti dell’Isola di Pasqua assegnavano ai propri antenati un ruolo nevralgico, in quanto si credesse fossero figure che bisognava proteggere perché, anche dopo la loro morte, avrebbero potuto influenzare il corso futuro della storia.
Per questo motivo ogni volta che un proprio antenato moriva era compito della comunità o della sua famiglia di edificare un Moai, simbolo di protezione verso i propri discendenti.
Una tradizione millenaria che ancora oggi è avvolta nel mistero, un enigma che ha le sue radici nella terra che ha rappresentato l’ombelico del mondo.
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