Non è facile descrivere con le parole la città di Varanasi. E non è facile farlo neppure con le immagini. Perché Varanasi va vissuta. Con i suoi colori, i suoi odori, i suoi suoni, i suoi riti, la sua sporcizia, la sua confusione, il suo misticismo.
Magica e implacabile. Sacra.
E’ considerata una delle città più antiche del pianeta tra quelle abitate con continuità e, secondo la leggenda, è stata fondata dal Dio Shiva.
In realtà le sue origini risalgono al 1200 a. C. e la sua importanza crebbe nel corso dell’VIII secolo d.C. quando il filosofo-teologo Shankaracharya rese il culto di Shiva la principale setta dell’hinduismo.
La città fu poi ripetutamente distrutta, prima dagli afghani intorno al 1300 e poi dal fanatico imperatore moghul Aurangzeb.
Pochi edifici del centro storico hanno dunque più di due secoli, anche se la fatiscenza che caratterizza palazzi e templi può trarre in inganno.
In altre epoche storiche era conosciuta come Kashi, città della vita, e gli inglesi, incapaci di pronunciare il suo nome, la chiamarono Benares.Adagiata sulle rive del Gange, ancora oggi è una delle sette città sacre dell’hinduismo, luogo da cui tutto ha origine e a cui tutto ritorna.
Qui ci si ricongiunge al divino, è possibile espiare i propri peccati e, soprattutto, si ottiene la liberazione dal ciclo infinito delle reincarnazioni.
Ecco perché morire a Varanasi è il sogno di tutti i devoti. A Varanasi la morte si mostra, non si nasconde.
Perché è un evento normale, è solo una fase della vita.
Cuore pulsante della città sono dunque i “ghat”, le scalinate di pietra che terminano nel fiume. Sono più di ottanta e qui ogni induista deve venire almeno una volta nella vita per immergersi nel Gange, qui i parenti portano i corpi dei loro cari per cremarli e per disperderne le ceneri nelle sacre acque.
Da secoli le pire ardono lungo i “ghat” funerari, i fumi si disperdono nel cielo e un odore acre si diffonde nell’aria.Non è un luogo adatto a persone particolarmente sensibili. Ma è comunque un’esperienza indimenticabile.
I momenti migliori per visitare i ghat sono l’alba, quando nella luce soffusa i pellegrini arrivano per eseguire la “puja” di fronte al sole che sorge e il tramonto, quando sul Dashashwamedh Ghat, il più pittoresco e animato, si svolge la cerimonia del “ganga aarti” (venerazione del fiume) con preghiere, falò e danze.
In ogni momento della giornata, tuttavia, una passeggiata lungo i ghat consente di osservare la gente del posto impegnata nelle più svariate attività: c’è chi fa il bucato, chi esercizi di yoga. Ci sono i venditori ambulanti e chi lava il bestiame.
Ci sono i bambini che giocano con gli aquiloni e i ragazzi che giocano a cricket. C’è chi aggiusta le barche e chi prepara da mangiare.
Ci sono i mendicanti e c’è chi fa la carità per migliorare il proprio carma. Un universo incredibile.
Altrettanto emozionante è osservare la vita che si svolge sui ghat con una piccola imbarcazione che costeggia le rive.
Sono tante le barchette lungo il fiume e, in mezzo ad esse, galleggiano decine e decine di fiammelle ornate di fiori che rappresentano i sogni.
I devoti le affidano a “madre Ganga”: quanto più lontano la corrente le porterà, tanta più prosperità si avrà.
Non è necessario essere induisti per respirare l’atmosfera mistica di questo luogo dove ci si riconcilia non solo con la vita, ma anche con la morte.
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