È la quinta donna italiana a raggiungere la vetta dell’Everest e la sua è un’avventura straordinaria. Oggi sul blog abbiamo il piacere di intervistare Ines Zucchelli.
La passione per la montagna non basta, quando si tratta di salire sul tetto del mondo. Serve preparazione, allenamento, disciplina e la massima concentrazione. Lo sa bene Ines Zucchelli, alpinista di grande esperienza che da poco è diventata la quinta donna italiana a raggiungere la cima dell’Everest. Ines è tornata da poco dalla sua grande impresa e abbiamo avuto l’opportunità di farci raccontare in diretta la sua avventura.
Raccontaci la tua impresa
Insieme al gruppo con il quale ho effettuato l’ascesa sono arrivata al campo base e lì siamo stati fermi dieci giorni, in attesa che i cinesi mettessero le corde fisse fino in cima. Al campo base ci si arriva senza problemi, la strada è asfaltata e c’è anche la corrente.
Abbiamo poi iniziato a salire fino al campo intermedio e al campo avanzato. Lì è tutto morena, un dislivello di mille metri, il percorso è di circa 22 chilometri, decisamente massacrante.
Il campo avanzato si trova su una morena ma già con presenza di neve e ghiaccio. Dal campo avanzato siamo andati al colle nord, conosciuto anche come Campo 1, si trova a 7.000 metri. Il campo successivo è a 7.500 metri, si va su con ramponi e corda fissa in fila. Qui l’ascesa è in verticale e lo sforzo è decisamente maggiore.
Fino a questo punto sono salita senza l’ossigeno, poi a 7.400 metri l’ho accettato anch’io, ho dormito anche con la maschera.
Durante l’ascesa c’è sempre stato bel tempo ma con un vento molto forte, che ha ritardato il percorso. Da qui sono salita al Campo 3, a 8.200 metri, il percorso è tutto su roccia ghiacciata e il campo è interamente in verticale.
Sono arrivata alle quattro del pomeriggio e sono partita per la vetta alle nove di sera. Ho raggiunto la vetta alle quattro del mattino, siamo stati uno dei primi gruppi ad arrivare. Durante questa parte di ascesa non vedevo nulla, poi in prossimità della cima ha iniziato ad albeggiare e il cielo è diventato terso.
In vetta ho avuto il tempo di farmi fare una foto dal mio sherpa e ho legato un gagliardetto del mio CAI, quello di Merone, e dei nastri sui quali le mie amiche avevano scritto delle preghiere per me. La vetta è molto piccola, praticamente una lama, la gente arrivava da entrambi i lati e bisognava liberare lo spazio, faceva molto freddo.
In cima non ho neanche realizzato quello che avevo fatto, me ne sono resa conto in tenda al Campo 2 quando mi sono rilassata.
È stata la realizzazione del sogno di una vita, da sempre sognavo di scalare un 8.000. Ed è andata molto bene, sul versante nepalese negli stessi giorni ci sono stati undici morti.
Quali sono le difficoltà principali che hai incontrato?
Non mi sono mai trovata in pericolo, il percorso è stato gestibile, l’organizzazione e lo sherpa sono stati molto professionali. Il mio sherpa “personale” ha 23 anni ed è già salito in cima all’Everest tre volte.
Come ti sei allenata?
Da sempre vado in montagna, tutti i week end parto con il mio compagno e andiamo in Val d’Aosta ad allenarci. Insieme abbiamo fatto tutti i 4.000 delle Alpi e anche le vie più impegnative del Monte Bianco.
Hai deciso di compiere questa impresa per un motivo preciso: ce lo puoi raccontare?
La passione per la montagna l’ho ereditata da mio papà. Noi siamo originari della bassa ma abbiamo la montagna nel sangue. Fin da quando ero piccola seguivo mio padre e i miei fratelli e mi arrabbiavo quando non mi portavano con loro.
Nel 1976 i miei fratelli sono mancati durante un’ascesa sul Monte Bianco per proteggere due loro amici. Per circa 25 anni ho smesso di andare in montagna, poi ho conosciuto il mio compagno e ho ricominciato.
Da allora ho toccato tantissime grandi vette del mondo, siamo andati in Patagonia, in Alaska, in Cina e naturalmente in tutta Italia.
Quali consigli daresti a chi vuole compiere una impresa simile alla tua?
Il primo consiglio è allenarsi. L’allenamento è fondamentale, non si può partire senza la dovuta preparazione, ho visto parecchia gente del mio gruppo che non sapeva nemmeno mettersi i ramponi. L’Everest può essere molto rischioso, non va sottovalutato. Non bisogna inoltre dimenticare la pressione, a quell’altitudine è altissima ed è pericolosa.
E poi il consiglio più importante: se hai un sogno, devi lottare per realizzarlo, anche se ti sembra impossibile.
L’Everest mi sembrava un sogno irraggiungibile, ma mi sono preparata, ho lavorato duramente e ce l’ho fatta. E questo è il traguardo più importante.
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