Sono sempre stata attratta dal Nord Africa, dalla sua cultura e dai paesaggi. Anni fa ho trascorso quasi tutto il mese di settembre a Tunisi, poi nel deserto del Sahara, e a Tozuer, una città che sorge in un’oasi ai margini del deserto.
Ma il mio desiderio più grande, da tempo, era di visitare Marrakech.
Mi incuriosiva per la fusione tra antico e moderno, l’incrocio di etnie, lingue e culture: araba, berbera e subsahariana, e il mescolio di entità sociali, economiche e religiose diverse. Scoprire che un’amica italiana si era trasferita proprio a Marrakech mi ha convinta, e ho organizzato tutto in un paio di giorni.
All’uscita dell’Aeroporto Marrakech-Menara ci sono decine, forse centinaia di driver con i cartelli dei vari Riad della città. Ci sono solo loro, nessun altro, sorridenti e cordiali. Cerco il mio cartello, ci metto un pò perché sono davvero tanti, ma finalmente lo trovo, tra le mani di Jassin.
Stretta di mano, sorriso e via verso il Riad con un van nero molto grande di cui sono l’unica passeggera.
Entrati nella Medina non ci sono sensi di marcia, cartelli, semafori, stop o altra segnaletica; ognuno sceglie lo spazio dove infilarsi, apparentemente in modo arbitrario, ma sono convinta ci siano delle tacite regole perché nel loro caos si muovono con abilità e armonia, fieri e sicuri.
Arrivata al Riad Sun of Kech vengo accolta molto gentilmente da Hicham, il marito marocchino della mia amica italiana Chiara.
Mi offre un buonissimo the alla menta, versato rigorosamente tenendo la teiera in alto e lontano dal bicchiere, dice che il the deve fare la schiuma perchè “se non fa la schiuma, non è un buon the”. Io e Hicham chiacchieriamo a proposito della città, della sua idea di qualche anno fa di ristrutturare e ridare vita al Riad in cui sono ospite, e approfitto per rilassarmi e sorseggiare l’ottimo the.
Il Riad è una casa marocchina o palazzo tradizionale con un giardino interno situato nel cortile. La parola deriva dal termine arabo “giardino“, “Ryad” appunto. Furono costruiti a partire dall’undicesimo secolo quando gli Almoravidi conquistarono la Spagna e inviarono architetti e artigiani spagnoli in Marocco. Il cuore del Riad è il patio all’interno, che ha la duplice funzionalità di garantire la privacy degli inquilini e proteggerli dal clima marocchino.
L’importanza del patio centrale è sottolineata anche dal fatto che all’esterno non ci sono finestre di grandi dimensioni, le uniche presenti danno su questo giardino, spesso arricchito da fontane, divanetti accoglienti e tavoli intarsiati (il tutto proporzionato alla ricchezza del Riad).
Spesso i muri del Riad sono adornati con stucchi decorativi a base di calce e piastrelle di terracotta e argilla fatte a mano e smaltate con colori trasparenti chiamate Zellige o Zillij. Non sempre è facile raggiungerlo perchè a volte non sono presenti delle indicazioni all’esterno del palazzo.
Al contrario di quanto accade per l’hotel, è possibile che un tassista si trovi in difficoltà nel caso in cui gli venga comunicato soltanto il nome del Riad: sarebbe quindi necessario avere con sé l’indirizzo preciso.
Dopo un’oretta dal mio arrivo, ci raggiunge Chiara, la mia amica italiana, che mi da alcune informazioni fondamentali per andare in giro: una mappa fatta benissimo, alcune tappe evidenziate, tutto molto organizzato. Mi dicono che è semplice muoversi per la Medina, basta avere dei punti di riferimento chiari, ma come vi dicevo prima, non ci sono cartelli, indicazioni, semafori, nomi delle vie, non c’è nulla, nemmeno le strade in effetti.
A Marrakech ti devi perdere.
Superato il primo momento di difficoltà, decido quindi di mettere la mappa in tasca e andare semplicemente in giro.
Sono molto affamata e il posto che voglio raggiungere il prima possibile è il ristorante I Limoni, di proprietà di un architetto italiano trasferito a Marrakech molti anni fa, consigliato da Chiara, e dove sarei andata a mangiare il cous cous indubbiamente più buono di sempre.
Mi sono persa 3 volte prima di arrivarci, un labirinto vero e proprio la Medina, dove conviene seguire l’istinto, e usare la mappa solo per chiedere informazioni a chi conosce la città.
Il primo giorno a Marrakech ho camminato per ore, mi sono persa e mi sono ritrovata.
L’impatto è fortissimo. Venendo da Roma credevo di essere temprata, ma alla fine della prima giornata mi sono sentita complice, con tutti i marocchini che ho incontrato, di un’esperienza che mi ha fatto sentire allenata alle cose. Dal secondo giorno, ho continuato a tenere la mappa in tasca, andandomene ancora in giro a perdermi tra i souk.
Il Riad Sun of Kech, dove sono stata ospite in quei giorni, è immerso in un’atmosfera senza tempo. Silenzioso, e a parte la connessione wi-fi, non ha nulla che possa essere ricollegato alla modernità, al presente.
Tutto è stato ricostruito nel pieno rispetto della tradizione. La cosa che più mi ha colpito è che le porte, tradizionali e di legno intagliate e decorate, non hanno la chiave. Hanno una chiusura tradizionale in metallo, che serve per tenere insieme le due porte di legno. Metafora o tradizione? Non ho approfondito la questione perché mi piace pensare che sia la tradizione a dettare le indiscutibili regole di questo luogo, e la metafora dell’apertura e della fiducia, tipiche del popolo berbero, è in armonia perfetta con l’ambiente.
C’è profumo di menta e arancia, cannella e uvetta, salsedine e mare, e di dolce e salato, come tutta la cucina marocchina tradizionale.
Il mio Riad era nella Medina, e sono andata in giro soprattutto lì, perdendomi (letteralmente) nelle tante stradine, nei souk, e arrivando fino alla piazza Jamaa El Fna, la più famosa della città, passaggio obbligato per chi arriva a Marrakech per la prima volta.
Nelle prime luci del mattino Jemaa El Fna si riempie vivacemente di venditori di frutta e verdura divenendo un vero mercato, che poi scompare a metà mattina, lasciando spazio agli incantatori di serpenti e vari artisti di strada: narratori, ballerini, pittori, giocolieri, tatuatrici di hennè, addirittura qui è possibile acquistare dei denti.
Non date troppa attenzione a queste persone se non siete interessati a quello che offrono, non sono lì gratuitamente.
Spesso i viaggiatori lamentano di Marrakech la pressione esasperata dei commercianti, di qualsivoglia tipo, ma questo vuol dire fare commercio qui. Lasciatevi coinvolgere invece da questa gente: perdeteci 5 minuti o mezz’ora, fatevi offrire un tè, vi racconteranno storie bellissime, soprattutto i giovani vi stupiranno (parlano tutti inglese e francese), il loro modo di pensare è fortemente moderno.
Sconsigliata la zona più a est della Medina, dove ci sono i conciatori di pellami (tra i più famosi al mondo), non è molto sicura e si può tranquillamente evitare.
Ho capito l’importanza del “perdersi” girando per la Medina, e ho capito l’importanza della diffidenza e del sapersi destreggiare tra un sì e un no, anche mentre parli con la stessa persona. Ho visto il possibile, camminato fino ad avere le vesciche ai piedi, parlato con tutte le persone che potevano darmi informazioni. Ma non bastava, volevo di più.
“Il Marocco o lo ami o lo odi”, mi hanno detto appena arrivata. Non capivo cosa intendessero dire, ma ero intenzionata a scoprirlo.
Ne ho colto il senso dopo un paio di giorni, ma non ho ancora deciso, l’ho amato e odiato insieme, e non mi so spiegare ancora bene il perché.
E così, trascorsi due giorni molto intensi a Marrakech avevo voglia di vedere tutto il Marocco, sono rimasta colpita dai paradossi ed ero curiosa di scoprire di più. Decido quindi di partire per Essaouira, piccola città più a ovest sul mare. Mi accompagna il gentilissimo Jassin, che lavora per il Riad in cui sono ospite.
Poco dopo la partenza Jassin mi spiega che faremo alcune tappe sulla strada, soprattutto per visitare coltivazioni di argan.
Durante il tragitto va sempre molto piano, così gli chiedo spiegazioni, e mi spiega che ci sono molte telecamere e fanno le multe per l’alta velocità. Ci abbiamo messo quattro ore a percorrere 180km. Molto faticoso, ma Jassin sorrideva sempre e gliel’ho perdonato.
Lungo la strada ci sono molte coltivazioni di argan, e una delle cose più curiose, divenuta oramai attrazione turistica (chissà che non sia il contrario, e un’attrazione turistica non sia diventata una condizione naturale) sono le pecore che mangiano frutti di argan standosene tranquillamente sugli alberi. Molto strano, e strappa decisamente una risata. “It’s crazy”, dice Jassin, e non posso che annuire.
Faccio le foto e i video di rito, lascio una mancia ai custodi delle “pecore sugli alberi” (qui è quasi d’obbligo, devi lasciare soldi a tutti per fare qualsiasi cosa, e io rispetto la “tradizione”) e ripartiamo. Molto curioso e divertente, merita assolutamente una piccola sosta.
Ci fermiamo poco dopo in una cooperativa di sole donne, L’Arganomade, dove l’argan viene lavorato e trasformato in creme, maschere per il viso, olio alimentare, e tanto altro. Frutto dalle mille proprietà curative, fonte di guadagno per questa zona piuttosto povera e attrazione per i turisti. Jassin mi consiglia di visitarla, e mi affida nelle mani gentili di una lavoratrice della cooperativa che mi racconta la loro storia e mi spiega in un ottimo inglese l’intera filiera.
Faccio i miei acquisti, assaggio dell’ottimo pane marocchino con olio alimentare di argan e ripartiamo.
Arrivati alla Medina di Essaouira, Jassin mi lascia al porto, dove mi fermo un pò di tempo ad ammirare le bellissime onde e molti gabbiani che si divertono a cavalcare il vento, l’atmosfera è contemplativa. Ci diamo un appuntamento li dopo 3 ore. Ma decisa a scoprire ogni angolo della Medina in quel poco tempo, mi immergo subito nel cuore di questa piccola città di pescatori. Ventosa e accogliente, paradiso dei surfisti e oasi felice per gli hippie. E’ molto famosa per il surf, ma anche per le comunità di hippie e per il festival di musica che si svolge ogni anno a giugno, e per cui arrivano appassionati da tutto il mondo.
Mi perdo nelle stradine anche qui e scatto numerose fotografie. Molto diversa dalla Medina di Marrakech, qui si ha l’impressione che il turismo europeo abbia influenzato parecchio l’economia e l’aspetto della città. Blu e bianca, inaspettatamente ordinata e curata, meno caotica di Marrakech, e forse più turistica, si ha la sensazione di potersi rilassare.
Camminando per Essaouira, mi ritrovo in una piccola piazzetta, dove mi spiegheranno che fino ad un anno prima non c’era niente, e ora è piena di bar e ristoranti molto curati ma sempre nel rispetto dell’architettura tradizionale.
Mi siedo in uno di questi, il BistrO Essaouira, e viene a chiedermi cosa voglio ordinare una ragazza dall’aria simpatica. Mi parla in francese, ma riconosco l’accento italiano. All’inizio le rispondo in francese, poi non resisto e le chiedo se è italiana, mi sorride “si, siciliana”.
Ordino un caffè americano macchiato e lei mi convince ad assaggiare la sua cheesecake con fragole e mirtilli freschi. Forse, nella sua semplicità, la più buona che abbia mai mangiato. Le materie prime sono eccezionali in Marocco, e mangi benissimo quasi ovunque, perché il sapore delle cose ha davvero il sapore della cosa che stai mangiando.
Sembra scontato, ma non lo è affatto.
Hanno il sole, la terra generosa, e non usano pesticidi, tutto bio, senza lavorazioni speciali. Meraviglioso.
Naturalmente non resisto alla tentazione di fare due chiacchiere con la compatriota, ero troppo curiosa di sapere come mai si trovasse li. Decido quindi di farle una vera e propria intervista, registrando la nostra conversazione. Lei gentilissima si rende disponibile, e mi concede tutta la sua ora di pausa.
Valentina, è una catanese doc, che lavora sei mesi a Ginevra e sei mesi ad Essaouira. Fa la Executive Sous Chef al BistrO ed è fidanzata con un marocchino. Sono molto affascinata dai suoi racconti, e dal modo in cui espone i fatti, una vita interessante fatta di scelte coraggiose, in cui niente era prevedibile e tutto poteva succedere.
E’ stato bello, e mi sono portata con me un pezzetto di vita di Valentina, della bellissima Medina, del vento, del mare e del fortissimo odore di pesce del porto, su cui decine di gabbiani svolazzavano frenetici e affamati. Purtroppo il mio tempo è scaduto e devo raggiungere Jassin che mi riporterà, molto lentamente, a Marrakech.
Vado via da quella dimensione senza tempo, ma sento che non è tutto, manca qualcosa. Anche qui a Essaouira ho la sensazione di dover tornare, ho preso qualcosa ma lasciato qualcos’altro. Forse è solo la mia curiosità, insaziabile quando viaggio, ma scoprirò anche questo quando tornerò in Marocco, perché ho la sensazione che puoi conoscerlo davvero solo dopo averlo amato a fondo, più e più volte.
Tornerò per chiarirmi le idee, ma sono certa della sensazione che mi sono portata dietro tornando in Italia. Ero svuotata e arricchita allo stesso tempo. L’impatto con la città è fortissimo, ti invade completamente. Caotica e disordinata, accogliente e sorridente, morbosa e distaccata insieme. Contraddizioni ovunque, difficile schierarsi dalla parte dell’amore o dell’odio. Forse puoi farlo solo vivendola a fondo, tutta, per un tempo lungo.
Tornerò. Voglio andare nel deserto, stare con loro, parlare con loro, mangiare ancora cous cous e tajine.
In realtà so che non mi schiererò da una parte o dall’altra, voglio amarla e odiarla come succede nelle più grandi storie d’amore.
Testi e foto di: Marianna di Mauro
2 Commenti
Mi è proprio tornata la voglia di ritornare in Marocco, posto stupendo. E’ proprio vero perdersi e ritrovarsi a Marrakech è un’esperienza che va assolutamente fatta!
Interessante !!
GRAZIE
Teresa Rosa