Il mio trekking in Dolpo in una terra remota e selvaggia nel cuore dell’Himalaya.
E’ un attimo. Un attimo di incredibile intensità. Il suo profilo di staglia contro il cielo color cobalto.
Sta passeggiando, elegante e fiero, su un crinale di roccia e sassi. Si gira verso di noi, più in basso, che arranchiamo nell’atmosfera rarefatta dei 5000 metri, lungo il corso di un torrente glaciale.
Ci guarda, le orecchie tonde, vigili e dritte, la coda, enorme rispetto al corpo, distesa dietro di lui.
E’ un attimo.
Poi scompare al di là delle rocce, sull’altro versante del crinale. Incontrare il leopardo delle nevi è un privilegio talmente raro che forse varrebbe da solo per rendere eccezionale questo mio viaggio in Dolpo.
Eppure non è così.
Perché il Dolpo, questa remota regione del Nepal, al confine con il Tibet, ha saputo regalarmi emozioni così forti da essere difficilmente descrivibili. Mi tornano alla mente le parole di un amico: “I viaggi vanno fatti, non raccontati”.
Ci proverò lo stesso, comunque, a raccontarvi questa spedizione, che per 25 giorni mi ha isolato dal mondo conosciuto per immergermi, insieme ai miei compagni di avventura, in un luogo di sospensione spazio-temporale.
Il Dolpo è un luogo magico, incantato. Un luogo dove la natura ha il sopravvento assoluto e dove i pochissimi esseri umani incontrati sembrano i sopravvissuti di un mondo perduto.
Tutta così doveva essere la Terra, millenni fa. Prima di noi, che qui ci dimentichiamo chi siamo e da dove veniamo. Vogliamo dunque che la nostra presenza sia discreta, che non turbi questo equilibrio fatato.
E allora decidiamo di vivere questi giorni nell’unico modo possibile, adattandoci all’incontaminata immensità che ci circonda. Il ritmo delle nostre ore è dettato dalla natura.
Ci si alza quando la luce (non il sole, quello arriverà più tardi per scaldare i nostri corpi infreddoliti) fa capolino tra le cime e, dopo aver smontato il campo mobile, si comincia a camminare. E si continua fino all’imbrunire, quando il cielo si trasforma in un osservatorio astronomico.
Neppure l’intensa e spettrale luce della luna riesce ad oscurare la via lattea e i miliardi di stelle che brillano di luce gelida, come l’aria che ci circonda. Non c’è bisogno di sognare. Ogni attimo qui è sogno.
Come quando, dopo aver attraversato foreste, costeggiato, guadato e attraversato su traballanti ponti fiumi e torrenti, risalito gole profonde, scavate tra rocce erose dall’acqua e dal vento, vediamo, all’orizzonte, un turchese incastonato tra le montagne. E’ il lago Phoksundo con il suo colore incredibile, unico.
Sembra lì, sembra di poterlo toccare. In realtà occorreranno ancora ore di cammino per raggiungerlo. Ore di su e giù per queste vallate selvagge.
E poi eccoci arrivati sulle sue sponde. L’intensità delle sue sfumature cromatiche si esalta nella luce del tramonto.
Magia pura. Decidiamo di visitare l’antico monastero Bon sulle sue rive. Forse cerchiamo una benedizione.
Domani dovremo percorrere il sentiero dei demoni, quello che costeggia tutto il lago, quello che ci porterà al sacro Shey Gompa con la sua Montagna di Cristallo. La mente torna alle immagini del film “Himalaya, l’infanzia di un capo” che è stato girato proprio qui. Rivedo quello yak che precipita nel lago, rivedo quel cammino spettacolare ma insidioso, a picco su queste acque profonde e immobili.
I demoni, per fortuna, hanno pietà di noi e ci permettono di passare indenni. Eppure la loro eterea presenza si avverte, nei punti più difficili e scoscesi, nel volo di un’aquila, nel fruscio del vento, nella polvere che si solleva a ogni passo e che ricopre ogni cosa. Ma per raggiungere uno dei luoghi più mistici e remoti del mondo, dobbiamo ancora camminare e faticare.
Affrontare un passo, il Kang-là, a 5350 metri, risalire gole verticali, attraversare paesaggi desolati e aride vallate di rocce policrome, su cui incombono ghiacciai pensili. Solo branchi di baral ci fanno compagnia, con i loro sguardi timidi, mentre brucano la scarsa vegetazione tra i sassi. Sono i muri Mani ad informarci che la meta è raggiunta.
Con le loro scritte, le loro enigmatiche incisioni, ci introducono nella valle di Shey Gompa. Qui, tra tende di pelo di yak, case di pietra, e mulini di preghiera mossi dall’acqua del torrente, vive una piccola e isolata comunità di tibetani, accumunata da una profonda fede. Ci corrono incontro i pochi bambini, le eleganti e sorridenti donne in abito tradizionale, gli uomini con la loro decorazione rossa sui capelli neri e lunghi.
Tra di loro, Tinlè, l’attore protagonista del film “Himalaya”. E’ proprio lui, non è cambiato in questi anni (il film è del 1999). E’ simpatico e cordiale, fa le foto con noi. Ci parliamo a gesti, ma ci capiamo.
Ci indica il Gompa, il monastero, e la Montagna di Cristallo di cui spuntano solo le cime, dietro un’alta collina morenica. Le sue rocce bianche e imponenti sembrano essere lì per scrutare i rarissimi pellegrini che passano.
Ci fermiamo un giorno, per riposare e per gustare quest’atmosfera di non tempo, di non luogo.
Quello che più stupisce è il silenzio divino che ci circonda, quando il vento si placa. Un silenzio che ti entra nell’anima e aiuta a ritrovare se stessi. Ma non siamo neppure a metà del nostro trekking e ci attendono ancora giorni di spazi infiniti, di villaggi fuori dal tempo, di pietraie da scendere e risalire per superare passi oltre i 5000 metri.
Il deserto d’alta quota tibetano si stende sotto di noi, mentre scavalliamo catene e catene di montagne.
Dall’altra parte c’è il Nepal, altre vette, altri fiumi. Il cielo è blu, il sole è forte, nessuna nuvola all’orizzonte.
Paesaggi di bellezza mozzafiato. Viene quasi paura a guardarsi intorno. E’ tutto troppo vasto, troppo alto.
Un panorama destinato agli dei, non agli uomini. Infatti di esseri umani ne incontriamo davvero pochi.
Rari villaggi sorgono nei fondovalle (tra i 3500 e i 4000 metri) su colline terrazzate dove da secoli viene coltivato il grano saraceno. Proprio in questi giorni lo stanno battendo.
Rimaniamo incantati a guardare questa gente che cantando compie gesti atavici, in una danza antica, per garantirsi il sostentamento nei prossimi mesi, quando la neve e il ghiaccio copriranno tutto.
Sembrano figure emerse da un tempo che fu, ma la cui memoria è rimasta inconsciamente in ognuno di noi. Continuiamo nel nostro cammino tra stupa bianchi e rossi e muri mani, bandierine colorate che garriscono all’impetuoso vento himalayano, su ogni passo, su ogni ponte.
Su e giù, su e giù. Seguendo un sentiero da cui passavano (e passano ancora) le carovane di yak che scambiavano il sale tibetano con generi alimentari.
Ma il Nepal è la terra degli 8000. Ecco allora stagliarsi all’orizzonte prima il Dhaulagiri e poi l’Annapurna.
Giganti di roccia e ghiaccio, imponenti sentinelle che paiono proteggere queste vallate sconfinate e in parte inesplorate. Chissà cosa nascondono questi luoghi, lontano dai pochi sentieri tracciati.
Quelli che scendono dal Tibet e quello che stiamo percorrendo noi, per tornare nel nostro mondo.
Narra la leggenda che sia stato Guru Rimpochè, colui che ha diffuso il buddismo in tutto l’Himalaya, a scoprire il Dolpo e ad indicarlo come terra nascosta, o “beyul”. E l’indicazione vale ancora.
Lasciamo il Dolpo, superando gli ultimi tre passi, anche questi a oltre 5000 metri. Siamo ora in Mustang, dove passeremo gli ultimi giorni per raggiungere Jomsom da dove un piccolo aereo ci riporterà a Kathmandu.
E’ quando vedo la prima jeep, oltre il ponte sul fiume Kali Gandaki che mi rendo conto che l’avventura è finita.
Non so se mi mancheranno di più i paesaggi o le poche persone incontrate.
Non so se il leopardo delle nevi resterà nei miei ricordi più cari o se avrò più nostalgia dei muli che hanno trasportato i nostri carichi, o degli yak che mi guardavano quando incrociavo il loro cammino.
Certamente quello che non dimenticherò è la sensazione di profonda serenità che ho provato in più di un’occasione durante questa spedizione.
Guardando il panorama, sorridendo a un bambino, visitando un monastero, toccando la pietra di un muro mani.
Una serenità nata dalla convinzione di avere vissuto, seppur per poco tempo, in un luogo dell’anima.
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