Quando mi hanno proposto un trekking sui Monti Simien, in Etiopia, sono rimasta un po’ perplessa. Non ne conoscevo neppure l’esistenza, e poi, di solito, i trekking li faccio sull’Himalaya!!!
Nonostante ciò, la mia curiosità mi ha spinto a partire e devo dire che non me ne sono pentita, anzi!
Inseriti in un Parco Nazionale, i Monti Simien, patrimonio dell’Umanità Unesco, sorgono nel nord del Paese e hanno avuto origine 40 milioni di anni fa, quando numerose eruzioni vulcaniche hanno fatto sgorgare dalle viscere della terra enormi quantità di lava che hanno creato il massiccio, poi modellato da millenni di erosione. Le cime più alte superano i 4000 metri, come il Monte Ras Dashen, una delle nostre mete.
L’avventura comincia a Debark, ingresso del Parco. Qui incontriamo lo staff che ci accompagnerà durante la settimana di cammino: il ranger Fante, il cuoco e gli scout.
A bordo di una jeep percorriamo una strada sterrata, destinazione Chenek, dove monteremo il nostro primo campo e da dove partirà il nostro trekking.
Prima di arrivare però, la nostra guida ci porta a vedere il primo dei tanti gioielli nascosti tra questi monti.
Con una breve passeggiata lungo un umido ed erto sentiero, ci inoltriamo in una lussureggiante vegetazione che non permette allo sguardo di spaziare. Improvviso, un rumore, che via via si fa più forte, attira la nostra attenzione mentre camminiamo attenti a non scivolare.
Quando il frastuono si fa più forte, raggiungiamo una terrazza naturale che si affaccia su un paesaggio che sembra uscito dalla preistoria.
Di fronte a noi la cascata di Jimbar, più di 500 mt di salto, in una profonda gola circondata da montagne che sembrano i tepui del Venezuela.
E non stupisce che anche Walter Bonatti, noto cacciatore di “mondi perduti”, fu colpito da questo incredibile spettacolo naturale.
Arriviamo a Chenek (3650 mt) insieme a spesse nuvole che ci avvolgono, ma decidiamo lo stesso di fare quattro passi per acclimatarci.
Ci dirigiamo dove l’immenso tavolato roccioso dei Simien precipita sull’altopiano sottostante, tra gole e canaloni, con una verticalità che lascia senza parole. Le nuvole si alzano veloci come erano arrivate. Sopra di noi le vette più alte. Sotto e davanti a noi, il baratro che si perde sulle verdi e remote pianure sottostanti.
Quasi che i sensi e la vista non fossero sufficientemente appagati da questa scenografia inusuale e maestosa, intorno a noi compaiono, noncuranti della nostra presenza, decine di babbuini gelada, specie endemica che abita le pareti strapiombanti.
Sono detti anche “scimmie leoni” perché i maschi hanno una folta criniera attorno alla testa e alle spalle che ricorda appunto il grosso felino.
Con grande agilità risalgono i dirupi e cercano tra le rocce le erbe e le radici di cui si nutrono.
Le comunità sono molto numerose e ogni maschio ha il suo harem composto da molte femmine e numerosi cuccioli. Sul loro petto spicca una macchia rossa priva di peli a forma di cuore.
Cala la sera e il freddo si fa pungente. Meglio tornare alle tende e riposare. Domani si parte in salita.
La brina copre il sentiero e l’alba colora di rosa le cime intorno a noi. Risaliamo fino al passo di Bawahit dove abbiamo la fortuna di incontrare esemplari di stambecco di Simien, altra specie endemica, che, proprio come i gelada, saltano impavidi tra le pareti scoscese che precipitano nell’abisso.
Superato il valico, cominciamo a scendere per raggiungere il fiume Mesesha Wenz. Lo sguardo spazia verso l’infinito e gli enormi fiori giallo-rossi intorno a noi (la Kinphofia foliosa) sembrano torce che indicano il cammino. Guadato il corso d’acqua, il sentiero sale e lentamente i campi coltivati prendono il posto della particolare vegetazione afro-alpina.
Arriviamo nel villaggio di Ambiko dove montiamo le tende in uno spazio pianeggiante utilizzato dagli abitanti per battere il tef, il miglio e il sorgo.
Dopo una notte trascorsa sotto il peso di stelle sconosciute, qualcuno di noi parte per la vetta del Ras Dashen, qualcun altro si prende una giornata di riposo esplorando il villaggio e i dintorni. Faccio parte del secondo gruppo…
In una capanna c’è una rudimentale macina: donne e bimbi fanno la coda per utilizzarla e ritornare nelle loro povere abitazioni, sparse in tutta la vallata, con il prezioso frutto del duro lavoro nei campi pronto per essere cucinato. Ci sorridono stupiti e cercano in qualche modo di comunicare con noi.
Una dolce bambina, vestita di stracci, due grandi occhi neri e un lungo ciuffo di capelli arrotolati sulla cima della testina completamente rasata, mi rincorre e mi regala un rametto di mimosa fiorita.
Chissà se per lei esiste o esisterà mai un 8 marzo…
Quando lasciamo Ambiko, raggiungiamo in qualche ora un lungo tratto di sterminate praterie cosparse dalle endemiche e bellissime lobelie giganti. Dopo una serie di morbidi su e giù, scorgiamo dall’alto un piccolo agglomerato di tetti di lamiera.
E’ il villaggio di Arkawaze, un pugno di capanne sperso tra spazi senza fine. Oggi però è giorno di mercato e tutta la vallata pullula di clienti e commercianti che si affollano per comprare o per scambiare mercanzia di tutti i generi. C’è chi viene a piedi, chi a cavallo o in groppa a muli.
Non è il solito mercato africano. Non ci sono bancarelle e la merce è esposta sulla nuda terra.
Ortaggi, farine, ceste di vimini, matasse di lana, galline, pecore e caprette hanno il netto sopravvento sui pochi oggetti di plastica, tra cui non mancano le scarpette che noi usiamo per entrare in mare se ci sono gli scogli e che qui invece sono calzate dalla maggior parte delle persone.
Dopo esserci calati nella ressa, ci fermiamo su un prato per goderci questo spaccato di Etiopia così autentico.
Di fronte a noi un centinaio di uomini ascolta un elegante signore di bianco vestito arrivato a cavallo. La nostra guida ci spiega che è un assemblea popolare, durante la quale vengono prese importanti decisioni per tutta la zona.
Ad osservare tutto l’insieme, mi vengono in mente i nostri presepi. Ripartiamo in salita e poco prima del tramonto raggiungiamo Sona.
Sul cucuzzolo di una montagnetta un gruppo di edifici di fango e paglia, che sembrano crollare da un momento all’altro, delimitano uno spiazzo all’interno del quale montiamo le tende. Allibiti scopriamo che sono le aule della scuola che serve numerosi villaggi dei dintorni.
Chiacchieriamo a lungo con gli insegnanti, che parlano inglese, e che hanno deciso di trasferirsi qui dalla capitale per garantire l’istruzione ai bambini che abitano su queste montagne.
Un incontro commuovente, al termine del quale decidiamo di lasciare qui tutta la nostra scorta di biro e quaderni comprati prima di partire per il trekking proprio per distribuirla durante il cammino.
Facciamo anche una colletta tra di noi perché ci hanno raccontato che stanno raccogliendo fondi per costruire una nuova scuola.
Una goccia nel mare. Ne siamo consapevoli.
Dopo una notte trascorsa sotto un temporale, cominciamo una lunga discesa in un dolce paesaggio agreste, dove i campi coltivati si alternano ai pascoli.
Sparse qua e là capanne con il tetto di paglia e lungo il sentiero i fedeli che stanno andando a messa in una panoramica chiesa posta ai margini di una falesia.
Accaldati raggiungiamo il fiume Ansiya dove i più temerari fanno un bagno rinfrescante e approfittano per lavarsi tra le acque cristalline che scendono dai monti Simien, che qui l’erosione ha modellato dando loro un aspetto che ricorda le nostre Dolomiti.
Al campo di Mekarebaya, sopra al fiume sull’altro versante della vallata, le donne del villaggio, lontano giorni di cammino dalla prima strada carrozzabile, ci chiedono il sapone e ci offrono begli oggetti di vimini e simpatici contenitori ricavati dalle zucche.
Souvenirs per ricordare montagne che mi hanno colpito come il sorriso di chi le abita. L’indomani mattina riscendiamo sul fiume Ansiya in un altro punto.
Lo guadiamo con qualche difficoltà perché le piogge della stagione umida precedente ne hanno modificato il corso.
Superato l’ostacolo, risaliamo una vallata meravigliosa, tra torrenti impetuosi che formano cascate e laghetti verde smeraldo, guglie, pinnacoli, ex camini vulcanici e verticali pareti di roccia lavica. Storditi dal profumo del gelsomino selvatico e inebriati da un paesaggio davvero paradisiaco, arriviamo a Mulit per la nostra ultima notte in tenda.
Il nostro campo è nello spazio antistante al “bar” del paese. Un bar che, in puro stile etiope, serve solo caffè!
La gentile proprietaria ci invita ad assistere alla famosa “cerimonia del caffè”.
Un vero e proprio rito, forse finalizzato ad esaltare l’originale legame tra l’uomo e la natura.
Tra erbe locali e incensi, i chicchi vengono tostati su un braciere e poi macinati in un piccolo mortaio. La polvere ottenuta è introdotta nella jebena, una caffettiera di terracotta contenente acqua calda.
Quando il miscuglio bolle, la fragranza e l’aroma della bevanda si diffonde nell’aria. Il caffè, servito caldissimo, è distribuito partendo dall’ospite più anziano, in tazzine senza manico. Tutta la procedura, che ho estremamente riassunto, dura molto tempo e serve anche per invocare gli spiriti.
E’ buonissimo, beviamo le tre tazze previste dal rituale e passeggiamo per il villaggio.
Una giovane donna incinta mi invita ad entrare nella sua capanna. Sta cucinando la enjera, il piatto tipico dell’Etiopia, mentre la sua bambina, con addosso una maglietta da adulto, tutta stracciata, che le arriva ai piedi, mi guarda con gli occhioni spalancati. In un unico locale ci sono il forno e dei grossi recipienti di terracotta utilizzati come dispensa, i letti e una panca, sempre di terracotta, su cui è stesa, come un cuscino, una pelle di capra su cui mi accomodo.
Comunichiamo a gesti: il marito della signora e i due figli più grandi sono a lavorare in campagna, la bimba ha due anni e tra tre mesi nascerà una nuova bocca da sfamare.
Intanto la injera, fatta con un cereale indigeno che si chiama tef, è pronta. La donna me la porge con un sorriso.
Sembra uno strofinaccio sporco e grigiastro. E’ il loro pane quotidiano, una specie di piadina che accompagna altri piatti o che è consumata da sola.
Non posso tirarmi indietro…
Ha un sapore acido e sgradevole, a cui il mio palato non è abituato. La bambina ride, forse vedendo la mia faccia mentre deglutisco a fatica, anche perché le condizioni igieniche non sono delle migliori.
Ma i viaggi sono fatti anche di questi incontri.
E sono proprio questi incontri che ti resteranno dentro. Per sempre.
Saluto la signora e vado a godermi il tramonto che colora di rosso il cielo e i Monti Simien. Poi al campo, per il falò di fine trekking.
Tra canti e balli sembra davvero che la potenza dell’invisibile, parte integrante della cultura di questa gente, sia qui, intorno al fuoco, con noi.
Con calma, alla mattina partiamo per percorrere l’ultimo tratto di sentiero e raggiungere la strada dello Shire dove ci attendono le auto.
Usciamo da questo mondo perduto, fatto di contrasti cromatici tra il colore rosso della terra e il verde della vegetazione, fatto di erosioni millenarie e di forme acuminate, fatto di acque limpide e di campi coltivati in modo antico. Fatto di villaggi, di sorrisi, di fatica, di miseria.
Fatto di silenzi rotti dal cinguettio di migliaia di uccelli.
Fatto di saggezza, di pazienza, di antichi riti.
Un proverbio etiope dice: “se hai un solo dente in bocca, usa quello per sorridere”.
Ho capito che, per la gente che vive su questi sconosciuti e selvaggi monti, è proprio così.
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