Se gli spazi sconfinati generano in voi l’horror vacui più che la pace interiore, se i paesaggi desertici e le vaste catene montuose vi privano dei punti di riferimento e non vedete l’ora di riavere i vostri orizzonti metropolitani a protezione dello sguardo, e se le steppe vi disorientano come un mare che si stende illimitato di fronte a voi, allora la Mongolia non potrà attrarvi.
Se, al contrario, tutto questo vi affascina, vi motiva e vi mette in moto la curiosità spingendo il vostro sguardo e le gambe verso la linea dell’orizzonte, come se foste marinai della terra ferma, allora la Mongolia sarà uno di quei posti dove vorrete tornare presto: le sue innumerevoli geografie, le popolazioni che la abitano e l’aria rarefatta che vi si respira non saranno facilmente dimenticati.
Programmare un viaggio in Mongolia richiede uno studio preliminare delle aree geografiche che si vogliono visitare.
In genere, quando si pianifica un viaggio si immagina quali siano le cose imprescindibili da vedere del posto prescelto; nel caso della Mongolia non ha molto senso parlare di “cose”, perché la regione è per la maggior parte disabitata e ricca di paesaggi che variano sì, ma dopo chilometri e chilometri: foreste, deserti, laghi alpini, steppe e montagne innevate si susseguono in un territorio che è circa cinque volte l’Italia e con una densità di due abitanti per km quadrato.
Qui ha quindi molto più senso parlare di quale natura prediligere, quali atmosfere respirare e in quali colori immergersi, piuttosto che fare una lista delle cose che si vogliono vedere.
Personalmente, come primo assaggio di questa terra, ho scelto la zona che da Ulaanbaatar si estende a sud, verso il deserto del Gobi.
Un itinerario ben collaudato da molte agenzie, ma che richiede comunque alcune doti di adattamento alle abitudini dei nomadi e alla vita nelle loro tradizionali gher.
Sebbene la Mongolia stia rapidamente passando da un’economia legata al nomadismo a quella delle multinazionali, le tradizioni sono ancora molto sentite. Basti pensare che su quasi tre milioni di abitanti la metà sono nomadi e vivono principalmente allevando i famosi cavallini della steppa: dai tempi di Gengis Khan il mezzo di locomozione più sicuro e diffuso. E’ anche il mezzo che molti turisti utilizzano oggi per attraversare le immense steppe e le verdi pianure dell’Orkhon Valley, usufruendo dell’ospitalità degli allevatori durante il tragitto.Partendo dalla capitale, che sicuramente vale la visita (ma sulla cui descrizione non mi soffermo), conviene subito puntare verso Bage Gazriin Chuluu, una formazione rocciosa molto interessante, oggetto di culto da parte della popolazione locale, dove vale la pena passeggiare tra le rocce e salire sulle colline circostanti alla ricerca di qualche scorcio particolare.
Da qui mi sono diretto a Tsagaan Suvraga, denominata lo “stupa bianco”, una falesia molto suggestiva, erosa dall’acqua e dal vento e composta da miriadi di pinnacoli. Anche qui è d’obbligo girovagare tra la multiforme composizione e affacciarsi sulla valle circostante.
Sarebbe anche bene visitare il posto, come molti altri nel deserto dei Gobi, nelle prime ore della giornata o verso il tramonto, in modo da poter usufruire dei colori migliori che durante la giornata tendono a trasformarsi in un grigio-marrone-ocra con conseguente appiattimento del paesaggio.
La tappa successiva è senz’altro Gurvan Saikhan: ci si arriva costeggiando la valle di Yol, ricca di flora e fauna e con un paesaggio molto particolare: la steppa si alterna alle dune rosa e in lontananza appaiono le montagne del Gurvansaikhan National Park, un’area molto aspra e selvaggia.
Molto bella la regione di Yolyn Am con i suoi canyons e le sue gole. Il modo migliore di visitarla è fare una lunga passeggiata lungo il torrente Yol e ammirare le pareti rocciose della valle e il ghiaccio che ancora ricopre il fondo del fiume anche in tarda estate.
Questo è uno dei pochi siti dove mi sia capitato di incontrare turisti.Seguendo la pista si arriva direttamente nella zona di Khonog (Kongoryn Els), famosa per le alte dune – fino a 200 metri! – che, anche qui, vi consiglio di salire al calar del sole per ammirare il tramonto e godere di una vista davvero eccezionale su tutto il circondario.
Si è in pieno deserto e, volendo, ci si può spingere fino alla scoperta dei canyons di Khermen Tsav; in questo caso, tuttavia, dovete essere animati da un forte spirito di avventura e accompagnati da guide esperte.
In ogni caso, rimanendo nelle zone del Gobi più frequentate dai turisti, vale sicuramente la pena alloggiare nelle gher di qualche allevatore di cammelli e assistere a una loro giornata-tipo.
Scoprirete persone molto ospitali e dalle abitudini semplici in grado di adattarsi agli oltre 40 gradi estivi così come ai rigidi inverni.
Volendo si può organizzare un méharée di qualche giorno a cammello nel deserto.È un’esperienza davvero affascinante per chi sia interessato a usi e costumi delle popolazioni nomadi e voglia anche assaporare il silenzio e la solitudine di quei luoghi. Certo è che le privazioni non sono poche, a iniziare dall’ombra – che qui è ancora più rara che nel Sahara.
Le temperature estive non vanno poi sottovalutate, ma sarete ripagati da un’esperienza che per qualche giorno potrà farvi assaporare quello che hanno vissuto gli esploratori dei primi del Novecento.
Da questa zona sono poi risalito verso la depressione di Bayanzag: rocce scure e sabbia, dove spiccano le famose “flaming cliffs”, e dove furono ritrovati i più importanti resti di dinosauro (potete ammirarli nel museo a loro dedicato nella capitale).Tornando lentamente verso nord ci si deve fermare presso le rovine del monastero di Ongiyn.
Un tempo qui sorgevano alcuni tra i grandi monasteri della Mongolia, abitati da circa un migliaio di monaci, ma nel 1937 furono rasi al suolo dal regime comunista. Oggi restano delle rovine e un piccolo museo.
Prima di arrivare alla rinomata Orkhon Valley vale la pena visitare il suggestivo monastero di Tovkhon Khiid, posizionato in una meravigliosa zona verde. Con una passeggiata di circa un’ora si raggiunge la vetta della collina da cui la vista spazia sul range montuoso del parco nazionale di Kangai Nuruu.
D’estate il monastero è molto frequentato, soprattutto da locali.
Proseguendo si arriva nella splendida valle di Orkhon: un’immensa prateria punteggiata di gher di allevatori e grandi mandrie equine.
Per chi ama i trekking a cavallo questa è sicuramente una delle mete più ambite del viaggio. Volendo è possibile passare qui una decina di giorni muovendosi lungo facili percorsi e arrivando fino alle cascate dell’Orkhon.
I più intraprendenti potranno poi dirigersi nella riserva naturale del Khuisiin Naiman, dove si trovano otto bellissimi laghi circondati da verdi praterie – dalle cascate li separano due giorni di trekking a cavallo.Uscendo da queste magnifiche valli, la cosa più naturale da fare è dirigersi verso l’antica capitale del regno di Gengis Kahn: Kharkhorin.
Un tempo fiorente centro commerciale (XIII secolo), oggi è un’anonima cittadina in stile sovietico famosa per il complesso buddista di Erdene Zuu Khiid, che un tempo contava alcune decine di templi; oggi, dopo le purghe staliniane del 1937, ne sopravvivono solo tre.
Il complesso merita certamente una visita e vale la pena di prendere parte alle funzioni buddiste che vi si svolgono durante la giornata.
Prima di chiudere il cerchio verso la capitale consiglio due deviazioni molto interessanti: la riserva naturale di Khogno Khan Uul disseminata di grandi formazioni rocciose molto suggestive, dall’aspetto surreale e misterioso, che ricordano i paesaggi di “Pic-nic a Hanging Rock”, e le dune di sabbia di Eisen Tasarkhal, forse non così spettacolari come quelle di Khongoryn Els ma senz’altro interessanti.
Da qui il ritorno a Ulaanbaatar è breve.
Come dicevo in apertura, questo è solo uno dei tanti percorsi che si possono intraprendere in questo vasto paese.
A nord della capitale trovate una zona ricca di laghi, il più grande dei quali è il lago Khovsogoi, che si estende per 136 km e arriva a lambire la taiga siberiana.
Qui vivono, in un delicato e fragile ambiente, le ultime tribù di tsaatan, gli uomini renna, i darkhad e i buriati.
Lo sciamanesimo e il buddismo sono di nuovo diffusi, dopo la dura repressione sovietica. I paesaggi sono completamente diversi da quelli del sud che vi ho descritto. Ruscelli, praterie, pinete, montagne danno l’impressione ad alcuni viaggiatori di trovarsi in una sorta di Svizzera, e la sensazione è ancora più acuta se si proviene dalle sabbie del Gobi, dove il color giallo-ocra del paesaggio vi fa da guida per giorni e giorni.
Le possibilità di fare trekking in queste zone sono davvero sterminate, ma la scarsità di punti di riferimento, l’asprezza del territorio e le condizioni ambientali non sempre ottimali devono invitare alla prudenza e suggerire il supporto di operatori specializzati.Analogo discorso vale per la Mongolia occidentale, dove montagne di oltre 4.000 m, ghiacciai, laghi salati e territori selvaggi offrono possibilità straordinarie di trekking e incontri con popolazioni locali ancora poco conosciute dal turismo di massa.
A Olgii, ogni anno si svolge la festa delle aquile, in genere tra fine settembre e primi di ottobre, durante la quale i cacciatori kazaki si esibiscono in una serie di spettacoli e di gare.
Insieme alla festa delle aquile è possibile assistere a gare di cammelli e antichi giochi a cavallo.
A proposito di feste non bisogna dimenticare i Naaadam: i grandi giochi di guerra dove i mongoli si sfidano nella lotta libera, nel tiro con l’arco e e nelle corse a cavallo.
D’estate si svolgono più o meno in tutto il paese.
Vale la pena di ponderare bene, prima di partire, a quale Mongolia rivolgere la propria attenzione, dicevamo in apertura.
Vedere tutto è impossibile, la frenesia da occidentali sarebbe contraria ai ritmi lenti del paese e vi lascerebbe soltanto esausti, sfiniti e insoddisfatti; meglio allora andar via con una mancanza, una nostalgia, un vuoto interiore, sapendo di essere stati privati di qualcosa, ma sapendo anche che i vuoti geografici attraversati alimentano la voglia di nuovi spazi, altrettanto illimitati, da percorrere.
Il bello della Mongolia è anche questo: lasciarla sapendo che si deve tornare: perché di posare lo sguardo verso l’infinito non ci si stanca mai.
Testo e foto di Paolo Artuso
1 Commento
Una terra affascinante e lontana anni luce dal nostro modo di vivere, spero capiti un giorno l’occasione per poterla visitare