E’ difficile raccontare un viaggio in Myanmar che ti ha donato tante e differenti emozioni, non riesco a rimanere ancorata a ciò che ho visitato, vorrei trasmettere, se trovo le parole, quello che ho provato in questa terra di sorrisi e pagode.
Inizio a scrivere questo racconto in viaggio, per paura di dimenticarmi le sensazioni e i nomi non sempre facili delle Pagode.
Già al primo giorno rimango a bocca aperta difronte alla maestosità della Shwedagon Pagoda di Yangon.
Mi ricordavo le parole di Kipling “..un mistero dorato sull’orizzonte, una meraviglia che splende nel sole” e mi ritrovo questo immenso Stupa dorato alto 99 metri con una circonferenza alla base di 300 davanti a me, con il sole che tramonta e le prime luci sapientemente posizionate che si accendono.
Sono a piedi nudi, come tutti in rispetto alla sacralità del luogo, attendendo il calar del sole. Mi sento un tutt’uno con pellegrini birmani e stranieri, osservo gruppi di 40/50 persone che trasportano bandiere lunghissime sopra le loro teste, monaci color zafferano, arancio, rosso e grigio che pregano apertamente al suono delle campane.
Alla sera in Hotel mi segno sul mio piccolo taccuino peruviano “Yangon: un inizio col botto” augurandomi però di non aver già visto il meglio del paese il primo giorno di viaggio. Perché un itinerario ben stilato credo debba essere sempre un crescendo di emozioni.
Con un volo interno, raggiungiamo Mandalay. Parlo al plurale perché le sensazioni sono personali ma il viaggio era di gruppo: 9 bellissime persone, che hanno apportato un valore al viaggio condividendo i loro racconti, curiosità e spesso anche battute divertenti.
In aggiunta al gruppo c’è Giacomino, la nostra guida locale. Cresciuto con un missionario italiano, ha una buona padronanza della lingua, conosce bene la sua nazione, pazientemente ci spiega la storia delle Pagode, ci aiuta a comprendere le differenze fra il cristianesimo e il buddismo e spesso ci racconta aneddoti della sua famiglia per farci comprendere meglio i costumi e le tradizioni. Lui si definisce un montanaro (quindi l’empatia è immediata) e nelle montagne, si sa, le tradizioni sono più presenti che nelle città.
Di prima mattina ci appostiamo di fronte al Monastero Mahagandayon per assistere al pasto comunitario di mille monaci che in fila per due, in silenzio, a piedi scalzi con la loro ciottola di lacca in mano, si palesano allo scoccare delle 10,15. E’ il loro secondo ed ultimo pasto della giornata. Piccoli e grandi alternati, sfilano davanti a noi con visi sereni e sorridenti, sono per la maggior parte novizi.
In Myanmar, dove vige il buddismo theravada (la corrente più antica), ogni maschio è tenuto a vivere la vita monastica per almeno una settimana nella sua vita fra i 5 i 16 anni, privati di ogni bene materiale (solo 3 vesti in dote color rosso vivo, una tazza e la ciotola dell’elemosina).
Al termine ci spostiamo ad Amarapura, dove mi ritrovo ad attraversare, quasi di corsa sotto il sole cocente, tutto il ponte in teak (1208 metri) da sponda a sponda. Ho visto molte foto e dipinti di questo ponte e percorrerlo dal principio alla fine era il mio obbiettivo in quel momento.
Camminando mi incuriosiscono delle ragazze con il tanaka (crema solare e nutriente che si ottiene dallo sfregamento del tronco dell’omonimo albero con una pietra e allungata con acqua) spalmato come un make up a forma di foglia.
Chiedo loro il significato e subito vengo colpita dalla risata argentina, che da oggi chiamerò “birmana” tanto mi è rimasta stampata nelle orecchie.
Capiscono che sono affascinata e mi chiedono se ne voglio un po’ anch’io con la pelle bianca che mi ritrovo, acconsento. Al termine chiedo se posso scattare una foto con loro che, sorridenti, vanno a prendere il loro cellulare per avere un ricordo di una pallida donna italiana con le foglie di tanaka disegnate in volto.
Questa situazione di fotografare ed essere fotografati è entusiasmante: ti senti meno invadente a zoommare un volto quando capisci che anche dall’altra parte nasce la curiosità e la voglia di conservare un ricordo.
Cambiare mezzo di trasporto rende il viaggio meno monotono, così ci imbarchiamo sulla nostra bella e comoda barchetta locale per raggiungere Mingun.
Un viaggio nel viaggio: un’oretta di relax lungo il fiume Irrawaddy, sbocconcellando frutta fresca acquistata al mercato locale e godendoci panorami e scene di vita fluviale. La Pagoda incompiuta pare il simbolo delle ambizioni dell’uomo in ogni epoca.
Avvicinandoci lascia presagire la sua maestosità, ma solo quando arrivi a ridosso, ai suoi piedi, ti rendi conto di cosa sarebbe potuta diventare.
La seconda Pagoda, la Hsinbyume Paya invece ti acceca con il suo bianco e la sua moderna eleganza.
Ci si sente piccoli di fronte a queste grandezze. Visitiamo Pagode tutte diverse: grandi, piccole, bianche, in legno, dorate ed ognuna ha delle caratteristiche precise e differenti. Così come le statue dei Buddha: dai più grandi (72 metri il Buddha dormiente di Yangon), ai più alti, fino ai piccoli che stanno in un palmo della mano e che puoi donare (con meno di 1 euro) e posizionare dove meglio credi all’interno del tempio.
Noi accendiamo candele nelle Chiese, loro donano pagode, statue di Buddha, omaggi alle statue (fiori, da mangiare, da bere) o le ricoprono con foglie d’oro per ottenere un merito che consentirà loro una rinascita migliore nella prossima vita.
Alcune statue hanno perso la forma originaria a furia di coprirle d’oro (sembrano pupazzi di neve dorati).
Prima di raggiungere Bagan, con un’altra rilassante navigazione, ci fermiamo in alcuni villaggi dove i bambini ci accolgono prendendoci per mano, a marzo le scuole sono chiuse, noi sembriamo essere il loro momentaneo diversivo.
Una successione di carri trainati dai buoi scatena un gran polverone sullo sterrato, attorno al pozzo una mamma lava il suo bimbo che urla, altre donne lavano i panni insieme e ci sembra di tornare indietro nel tempo (io in realtà solo nei ricordi di mia nonna) e rimaniamo tutti affascinati da queste immagini di vita quotidiana rurale.
Bagan è una piccola Angkor distesa in una piana: le pagode sembrano funghetti che spuntano dalla foschia ad ogni dove.
L’insieme di spiritualità, magia, misticismo, grandezza, tranquillità ed armonia che si percepisce alle prime luci del tramonto, dai gradini più alti dei templi è unica. Comprendi cosa intendeva esattamente Lord Byron quando scriveva che “il viaggiatore è uno schiavo dei propri sensi”.
L’ultima tappa del viaggio è il Lago Inle, e proprio qui ho lasciato un pezzo di cuore.
Non saprei descrivere se è prevalsa in me l’empatia per gli abitanti: da brava “laghé” del mio Lario sono rimasta incantata dal loro vivere la quotidianità con naturalezza, con la gioia negli occhi, questo paradiso incastonato fra montagne e lago.
Abbiamo girato in lungo e in largo il lago e fra gli stretti canali con una semplice imbarcazione locale, esattamente come loro e tutti gli altri turisti. Più volte ci siamo trovati faccia a faccia con barche stracolme di locali con i loro costumi, cappelli, turbanti e ombrellini colorati, che ci salutavano a due mani, come noi con loro.
Spettacolari i pescatori che vedi dall’alba al tramonto (inizio e fine del loro lavoro) che picchiano ferocemente bastoni sull’acqua per intrappolare i pesci nelle loro reti e quelli storici dei cesti. Il loro stare in equilibrio, su una gamba sola, con quelle ceste sollevate e le loro pose sembrano scatti rubati da un balletto dell’opera.
Il lago è animato da villaggi di palafitte, pagode nascoste dove abbiamo conosciuto monaci desiderosi di insegnarci l’importanza della meditazione nella vista quotidiana, orti galleggianti, laboratori di tessitura di seta e fiori di loto.
L’esperienza del mercato tradizionale rimarrà per sempre nei miei ricordi più cari e nei timpani delle mie orecchie, grazie alle risate fragranti delle donne.
Frutta, verdura, spezie e formaggio si vendono ancora con le bilance tradizionali a doppio piatto. Nei corridoi del mercato, fra pesce fresco e pane caldo si vive: si mangia, si compra, si allattano i piccoli, si fuma, si chiacchera, ci si informa e confronta, si dorme.
L’ultimo giorno prima di lasciare Yangon, ci siamo fermati per una foto ricordo alla casa di Aung San Suu Kyi e del suo partito democratico NLD.
Proprio il giorno prima il suo compagno fidato è stato eletto Presidente della Repubblica, mentre lei è ancora in attesa di definire il suo posto nel governo.
In questi giorni si fa la storia di questo paese, ci racconta entusiasta la nostra guida, regalando ad ognuno di noi una copia del quotidiano locale con le foto di Htin Kyaw e San Suu Kyi. Si respira un’aria frizzante e di libertà fra le strade della città.
Finalmente la dittatura militare si è conclusa e per loro inizia una nuova epoca.
Un lavoro arduo li attende, devono istituire un sistema di welfare ed economico senza farsi sopraffare dalla vicina Cina (che già ha allungato le braccia al gas e alle ricchezze minerarie birmane).
Mi rimane solo il rammarico: fra pochi anni la Birmania perderà inevitabilmente un poco di quell’originalità che oggi la contraddistingue, ma son certa che i birmani non perderanno il loro bel sorriso.
Foto di Marco Calamari
Testi di Federica Mauri – Asia e Africa Dept. Earth Cultura e Natura
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