L’eco della sirena della nave si moltiplica tra le ripide pareti del fiordo e gli isolotti che, come iceberg, ci circondano. Abbiamo raggiunto l’“Angostura inglesa” (Strettoia degli Inglesi), al termine del Canale Messier. Dobbiamo affrontare lo stretto passaggio tra boe e un faro che, sopra uno scoglio ricoperto di cormorani, segnala la via obbligata.
Non si può sbagliare qui, nel Sud della Patagonia, tra le frastagliate e irte montagne che si frantumano nell’Oceano Pacifico, originando una serie infinita di canali, canalini, fiordi che solo un marinaio esperto può sfidare.
In alcuni punti il mare è profondo centinaia di metri, in altri, contigui ai primi, insidiose secche e rocce affioranti creano trappole mortali per le imbarcazioni che solcano queste acque selvagge.
Ce ne siamo resi conto questa mattina, appena la luce del sole ha fatto capolino da dietro le Ande.
Il relitto di un grosso cargo stava lì, intatto e immobile. Gli siamo passati accanto. Ci dicono che aveva appena scaricato il suo carico di zucchero a Puerto Natales e stava rientrando a Valparaiso. Non si sa come sia successo, ci sono storie e leggende al proposito.
Quello che è certo è che si è infilato dritto su uno scoglio a pelo d’acqua e che da più decenni è lì, coperto di ruggine ma integro.
Il vascello fantasma monito dei naviganti. Continuiamo il nostro viaggio verso Sud, circondati da montagne ricoperte da foreste primordiali, intricatissime, misteriose, inesplorate.
Sopra di noi nuvoloni densi e neri si alternano a sprazzi di cielo azzurro.
Scrosci d’acqua improvvisi lasciano il posto a caldi raggi solari che trasformano il paesaggio colorandolo e regalandoci momenti di magia, condivisi con i numerosi uccelli australi che ci accompagnano nel nostro peregrinare. Si ha la sensazione di perdersi in questo intrico della natura per non ritrovarsi più.
Subito dopo la Strettoia degli Inglesi ci fermiamo nella piccola baia dove sorge Puerto Eden, un minuscolo e colorato villaggio in cui vivono stabilmente meno di 60 persone. Subito veniamo circondati da barchette e gommoni che aspettavano proprio la nostra nave per poter caricare e scaricare generi di prima necessità. Noi non possiamo sbarcare, in compenso a bordo sale un’anziana india con una bambina dagli occhi neri e vivaci che ci guarda stupita e incredula.
Sono Alakalufe, uno dei popoli di pescatori nomadi, pressocchè sterminato agli inizi del ‘900 in nome del cosiddetto progresso. La nostra nave è, per questa comunità che vive alla fine del mondo, l’unico mezzo di collegamento con il resto del mondo.
E non è neppure un collegamento così sicuro. Per arrivare qui, infatti, occorre attraversare il Golfo delle Pene.
E mai nome fu più appropriato.
Fuori dai fiordi, in mare aperto, il Pacifico (e questo di nome non pare veritiero) mostra il suo lato peggiore.
Sono state dodici ore di sofferenza, tra onde alte più della nave e raffiche di vento. Sdraiata nella cabina, sembrava che il traghetto girasse su se stesso e che il mondo si capovolgesse.
In Patagonia c’ero già stata. E mi era piaciuta tanto da decidere di ritornarci. Questa volta però, ho voluto vivere un’esperienza diversa, che potesse davvero consentirmi di capire appieno ciò che grandi autori come Coloane, solo per citarne uno, hanno scritto di questa terra e di questi mari.
Ho deciso dunque di imbarcarmi a Puerto Montt e di raggiungere Puerto Natales via mare, su questa nave-traghetto di linea.
Un viaggio lungo quattro giorni e tre notti. Sulla carta. In realtà, si sa quando si sale ma non quando si scende. Anzi, non si sa nemmeno quando si sale. Il mio imbarco era previsto per sabato, però sono riuscita a partire solo lunedì alle 14,00.
Già, perché questa è l’unica nave che fa avanti e indietro su questa tratta e dunque anche le date di partenza dipendono strettamente dalle condizioni dell’oceano.
Oceano che qui, come dicevo, scatena la sua forze e la sua imprevedibilità. Che qui comanda. Che qui decide. Indiscutibilmente.
Per lunghi tratti si mostra placido e calmo e la nave scivola sulle sue acque come su una distesa di olio argentato. Poi, improvvisamente, scatena la sua forza e si trasforma in un turbinio plumbeo, solcato da minacciosi marosi bianchi. Inoltre, che conta, qui, sono le maree.
Per attraversare certe “Angosture”, cioè strettoie, è indispensabile che la marea sia alta, se no c’è il rischio che la nave si incagli sulle insidiose secche o impatti contro rocce a pelo d’acqua. E così, per esempio, trascorriamo ore nel Canale Santa Maria, in attesa di poter attraversare la strettoia di White.
Un attesa riempita restando incantati davanti a un arcobaleno perfetto, con un estremo tra i ghiacciai che scendono fino alla costa e l’altro al centro dell’acqua, mentre branchi di delfini giocano a nascondino con i nostri obiettivi fotografici e le stercorarie volano sfiorando il ponte su cui siamo stipati per ammirare ciò che ci circonda.
Dopo aver sfiorato le rocce strapiombanti dell’Angostura White, la prua entra decisa nel Golfo Almirante.
Il paesaggio si fa più dolce, il cielo si rasserena e il blu cobalto del cielo si confonde, all’orizzonte, con quello dell’oceano.
Passato l’ultimo isolotto, compaiono in lontananza le colorate casette di Puerto Natales. Siamo arrivati. Anzi, no. Perché con un altro elemento occorre fare i conti durante questo viaggio: il vento.
Improvviso e violentissimo, oltre a rallentare la navigazione, impedisce alla nave di attraccare nel porto di destinazione. Un vento gelido, che spesso arriva direttamente dall’Antartide.
Altre volte, invece, scende, con i ghiacciai, fino nel mare dalle vette andine.
Cominciamo un lento avvicinamento al piccolo porto australe, nella speranza che le raffiche cessino.
Eolo ci ascolta e rallenta il suo soffiare.
La nave lentamente attracca tra i cigni col collo nero, che ci danno il benvenuto alla fine del mondo.
Con tre giorni di ritardo rispetto ai programmi, scendo sulla banchina e respiro a pieni polmoni quest’aria così sottile, così pura e mi domando se, nonostante tutto, la rifarei questa esperienza.
Non ho dubbi.
Mi reimbarcherei domani.
Perché? Perché la Patagonia vista così è ancora più magica, più selvaggia, più imprevedibile.
E’ un luogo fisico e spirituale. E’ come se un Dio irato e stufo di modellare continenti e mari avesse scagliato nell’oceano con le sue enormi mani la terra che aveva ancora a disposizione, dando vita a un labirinto intricatissimo, pieno di colori e di sorprese.
E non c’è modo migliore per conoscerlo che addentrarsi su una nave tra queste guglie, questi ghiacciai e queste foreste primordiali.
In Patagonia, insomma.
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