Ai piedi delle montagne più alte del mondo per scoprire monasteri, città e villaggi e immergersi nella spiritualità buddista. Il Tibet? Sono le vette piu’ alte del mondo, quelle dell’Himalaya, che svettano superbe e candide al di sopra di altre montagne. Solitarie e imponenti guardano il viaggiatore da lassu’, a un passo dal cielo, ricordandogli nel loro splendore che qui, nel “Paese delle nevi”, le cime non vanno scalate, ma rispettate perche’ sono sacre.
Qui nessuno puo’ capire l’ostinazione di alpinisti stranieri che, sfidando se stessi e la vita, da anni si accaniscono per arrivare in vetta.
No, non e’ questa la via. Qui non si sale sulle montagne.
Si gira loro intorno, in estenuanti pellegrinaggi e intanto si prega. E si affida al vento che soffia impetuoso la propria preghiera, perche’ venga ripetuta all’infinito, perche’ diventi parte integrante del solitario e divino paesaggio che ci circonda.
Come quello del campo base dell’Everest, da dove è possibile ammirare la spettacolare parete nord della montagna più alta del mondo.
Il Tibet?
Sono i suoi secolari monasteri, avvolti da un atmosfera surreale e dai fumi dell’incenso che brucia.
A volte arroccati su speroni rocciosi (come quello di Ganden o come quello di Rongbuk a oltre 5000 metri, ai piedi dell’Everest), a volte placidamente adagiati su dolci altopiani (come quello di Samye, con la sua ricca simbologia e la sua pianta a forma di mandala).
Quei monasteri in cui il dolciastro odore del burro di yak utilizzato per accendere i lumi ti penetra nella pelle e non ti abbandona. Neppure quando torni a casa tua, a migliaia di chilometri da quella penombra in cui le statue di Budda, dei suoi discepoli e dei re che hanno diffuso la dottrina buddista ti guardano ricordandoti che nulla e’ eterno, che tutto passa, che bisogna saper rinunciare ad ogni desiderio.
Perche’ solo cosi’ si puo’ vivere in pace con se stessi e con il mondo.
Il Tibet?
E’ Lhasa, la sua capitale. Una citta’ che dietro l’apparenza della modernita’ che tutto uniforma, nasconde ancora gelosamente il suo passato glorioso e mistico.
Con il suo Potala, l’antico e maestoso palazzo che ha visto scorrere sotto e dentro di sè anni felici e anni tragici. Con il suo Jokhang, il luogo piu’ venerato dai buddisti, attorno al quale fedeli provenienti da tutto il Paese, girano, pregano e si prostrano.
Perche’ qui bisogna venirci almeno una volta nella vita. Cosi’ facevano i loro avi, così, forse, potranno fare i loro nipoti.
Lhasa con i suoi tetti dorati, con le sue case di sasso a due piani, con le bancarelle del Barkor, con i suoi aquiloni che volteggiano nel cielo terso.
Il Tibet?
Sono i monaci con i loro abiti rossi. Quelli del monastero di Sera, che ti affascinano con i loro dibattiti teologici. Quelli del monastero di Gyantse con il suo grande Kumbum.
La tradizione narra che chi di loro ha un cattivo karma si reincarna in un cane.
E forse non a caso, intorno ai templi, numerosi sono questi animali…
Quelli dell’enorme Tashilumpo, a Shigatse, devoti al Panchen Lama, la seconda carica religiosa tibetana.
Quelli del monastero di Sakya, che indossano un berretto rosso perché appartengono a una scuola diversa da quella dei Gelupa (berretto giallo) del Dalai Lama.
E quelli un po’ particolari, di cui ci viene raccontato. Monaci che volano, monaci che si immergono nelle acque gelide dei fiumi glaciali e sono in grado di asciugarsi gli abiti addosso con il calore corporeo, monaci che passano la vita rinchiusi in grotte nascoste sulle pendici dell’Himalaya.
Come Milarepa, che si nutrì di ortiche e divenne verde. Così come è rappresentato in numerosi templi, dove lo si ricorda anche per la sua straordinaria capacità poetica.
Il Tibet?
Sono le sue piste polverose che attraversano paesaggi mozzafiato. Dune di sabbia si alternano a campi coltivati, a distese di fiori gialli e rosa, a prati verdi. E poi sali e sali fino alla neve, perche’ c’e’ un passo da superare.
Qui garriscono al vento le Lung-ta, le bandierine di preghiera, colorando di rosso, di blu, di giallo, di verde e di bianco paesaggi lunari, in cui la vista spazia verso cime di ghiaccio che si confondono nelle nuvole di un cielo cobalto, terso e profondo.
L’illusione di eternità si impadronisce dei sensi, il tempo si ferma per un attimo. Ma poi ridiscendi nelle valli dei grandi fiumi, quelli che finiranno il loro percorso in India.
E durante il tragitto incontri i pastori nomadi che ti ospitano nelle loro tende e ti offrono del te’ caldo.
Mischiato con il burro di yak. La bevanda essenziale (insieme alla tsampa, farina di orzo) per fornire le calorie necessarie a vivere in un clima rigido per molti mesi dell’anno. Un gusto indigesto per il tuo palato.
Lo bevi per senso di ospitalità e lo bevi perché ormai sei un po’ tibetano anche tu.
Perchè il Tibet sono soprattutto i tibetani. Con i loro sorrisi, con i loro occhi scuri, con i loro volti solcati da rughe profonde che racchiudono non solo una sofferenza personale, ma anche la sofferenza di un intero popolo. Un popolo che ha rischiato di essere cancellato dalla storia. La rivoluzione culturale maoista ha portato con sè distruzione e sterminio nel Paese delle Nevi.
Ora l’atteggiamento della Cina si è mitigato, anche se i problemi restano. Le antiche tradizioni e abitudini devono fare i conti con i progressi voluti da Pechino. Progressi che, secondo chi li impone, faciliteranno la vita ai tibetani.
“Nella semplicità e nella povertà dei nostri villaggi vivevano più uomini felici di quanti abitano le città di oggi” scrive il Dalai Lama.
Lui, ora in esilio come tanti suoi connazionali, non ha visto lo scempio della sua Patria.
Ma sa che le ruote di preghiera continuano a girare, spinte da uomini, donne, bambini che nel profondo del loro cuore continuano, nonostante tutto, a ritenerlo il loro “capo”.
Girano al Norbulingka, l’ultima residenza di Sua Santità, immerso nel verde nei pressi di Lhasa, e girano in ogni monastero, in ogni luogo sacro. Le fai girare anche tu.
Perché il Tibet ti entra dentro e ti prende l’anima.
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