Lungo i 2800 chilometri della costa orientale vivono solo 3000 persone.
Un viaggio verso l’ultima Thule, per scoprire, insieme a paesaggi di una selvaggia bellezza, i problemi delle ultime popolazioni che vivono di caccia e pesca.
Siamo seduti sulla cima di un iceberg. Tobias, il più abile cacciatore della Groenlandia orientale, scruta l’orizzonte con il binocolo. Cerca le macchie nere delle foche stese al sole sui floes.
«No more seals» conclude alla fine e, scuotendo la testa, ripone il binocolo in una tasca.
Da quassù la nostra barca appare minuscola. La vista spazia sulla distesa del Polar Stream, un puzzle di lastroni, tra i quali come solitarie isole si levano gli iceberg.
Solo qui davanti all’isola di Ammassalik ne conto una quindicina. La loro vita dura circa due anni. I più grossi scendono fino alle latitudini delle rotte del Nord Atlantico.
Ma di solito si spezzano prima di spingersi tanto in basso e i blocchi più piccoli si sciolgono lentamente nell’acqua che si fa ogni giorno più calda.
A dispetto delle loro dimensioni, gli iceberg sono fragili. L’acqua dolce del ghiacciaio e l’acqua salata del mare non vanno d’accordo. Un processo di lenta distruzione inizia a disgregare il blocco appena si abbatte in acqua, staccandosi con uno schianto e uno spruzzo dalla lingua del ghiacciaio e ondeggiando a lungo sulla superficie del mare tutto fiorito di frammenti.
Ma talvolta la struttura collassa di colpo e allora una parte dell’iceberg crolla rovinosamente in un ribollire di spume, sollevando onde gigantesche. Qualche giorno fa dalla vetta del Qaqqartivakjik, la montagna più alta intorno a Tasiilaq, sedevo al sole insieme a Robert Peroni, che qui in Gronelandia orientale ha varato un progetto sociale a favore degli inuit. Avevamo appena tolto gli sci e osservavamo la lenta deriva della corrente, che si stendeva maculata fino all’orizzonte.
«Guarda!» gridò improvvisamente Robert.
L’intero fianco di un iceberg stava crollando in mare. Dopo un po’ giunse anche lo scroscio di quelle tonnellate di ghiaccio, che, con una lentezza inimmaginabile, si sbriciolavano nelle acque.
Intorno era un ribollire continuo e la chiazza bianca dei blocchi e della schiuma continuava ad allargarsi. Intanto, sbilanciato sul lato del crollo, l’iceberg aveva preso a beccheggiare paurosamente nel tentativo di riequilibrarsi, sollevando onde che scompigliavano la flottiglia dei floes.
Rientriamo a Tasiilaq. L’aspetto del paese è quello solito del Grande Nord: piccole case in legno, colori vivaci, senso di precarietà. Manca del tutto la cornice della città: marciapiedi, negozi, traffico. Le case sono costruite direttamente sui prati e sulle rocce. Sembrano solo appoggiate, strani oggetti capitati per caso in mezzo a questa natura prepotentemente selvaggia. Intorno al paese brillano i ghiacciai e il fiordo è invaso dai lastroni del polar stream. In fondo, simile a un relitto abbandonato, è arenato un gigantesco iceberg, infilatosi chissà come nella baia.
L’unica strada esistente lungo i tremila chilometri della costa orientale è questa che stiamo percorrendo all’interno del villaggio di Tasiilaq. Peroni parla mentre guida il suo fuoristrada.
«C’è negli inuit, soprattutto in questi del Tunu, una cieca voglia di autodistruzione: alcol e suicidi. Questa gente è senza speranza, nessuno può risolvere i suoi problemi. Sono e restano degli sconfitti, degli emarginati.
Il mondo occidentale atterra nei villaggi con i suoi elicotteri, impone la supremazia dei suoi mezzi tecnologici. Il nostro è un modello che non ammette eccezioni, né alternative».
L’idea della Casa Rossa è nata dalla scoperta di questo dramma.
«L’unica speranza, l’unico futuro per chi vive qui a contatto con il mondo occidentale è partecipare allo sviluppo da protagonisti, recando tutta la sensibilità verso l’ambiente naturale che gli inuit hanno acquisito nei millenni. Non servono i sussidi e gli assistenti sociali. Gli inuit devono riscoprire l’orgoglio di appartenenza e devono salvarsi da soli. Occorre che siano loro, i padroni di casa che da millenni si sono guadagnati il diritto di vivere in questa natura splendida e durissima, a gestire lo sviluppo della regione. La Casa Rossa e Tuning sono un progetto in cui europei e groenlandesi lavorano come partner per un turismo sostenibile».
La Groenlandia in lingua inuit si chiama Kalaallit Nunaat, letteralmente: «la terra dell’uomo del nord».
Oltre 2 milioni di kmq. Da 59° a 83°, 2800 km da N a S e tra i 400 e i 1100 da O a E. Per l’85% ricoperta da una calotta di ghiaccio come l’Antartide, l’Indlandsis o Ice Cap, l’ultimo residuo dei ghiacciai che ricoprivano l’emisfero boreale nel quaternario. Altipiano oltre i 2000 m. La rete stradale è di soli 150 km, 50 mila abitanti di cui più del 60% analfabeti.
L’isola di Ammassalik si stende a 100 km a sud del circolo polare artico. In giugno e luglio il sole brilla 24 ore. I villaggi si stendono a una distanza l’uno dall’altro che varia tra i 30 e 110 km.
La scoperta degli inuit, fu nell’estate del 1884 che gli inuit della Groenlandia orientale scoprirono di non essere i soli uomini al mondo. Il vascello del luogotenente Gustav Holm, che aveva doppiato Capo Farewell alla ricerca di resti vichinghi, rivelava agli eschimesi una strana razza di uomini con i capelli biondi, la barba, gli occhi chiari e non a mandorla.
Quel giorno la gente di Ammassalik entrava nella storia. Erano in quattrocentotredici e stavano pescando come ogni estate i piccoli pesci della famiglia dei salmonidi che hanno dato il nome all’isola: Ammassalik, «là dove ci sono i pesci».
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