Lei riposa in una teca di vetro. O meglio, quello che resta di lei. Un pezzo di cranio, uno di femore, parte della colonna vertebrale e del bacino e qualche altro osso del suo scheletro.
Lei è Lucy, donna di una nuova specie, l’Australopithecus afarensis, che già 3,2 milioni di anni fa camminava in posizione eretta.
La teca che conserva i suoi resti, scoperti nel 1974 in un lago prosciugato nel Nord-Est del Paese, è il pezzo forte del museo nazionale di Addis Abeba e, proprio grazie a lei, all’Etiopia fu attribuito il titolo di “culla dell’umanità”.
Ora la questione si è fatta più complessa e nuovi rinvenimenti hanno messo un po’ in dubbio il suo ruolo di antenata del genere umano. Resta il fatto che guardarla, immaginarsi com’era il nostro pianeta ai suoi tempi, come viveva, con chi, quali erano i suoi sentimenti, le sue gioie, le sue paure, è comunque emozionante.
Inizia così il mio viaggio nell’Etiopia del Nord, lungo quella che è comunemente chiamata la “rotta storica”. Lasciata la caotica capitale, arrivo a Bahir Dar, una piacevole cittadina sulle sponde del grande Lago Tana. Con una rilassante passeggiata raggiungo la voragine in cui precipita il Nilo Azzurro, generando imponenti cascate avvolte da nebbie, vapori e arcobaleni.
Dicono che siano le seconde in Africa, dopo quelle Vittoria. Il fiume che le origina nasce proprio dal Lago Tana, le cui isolette nascondono in una lussureggiante vegetazione, habitat ideale per molte specie di uccelli, monasteri e chiese centenari, di grande interesse storico e culturale.
Patrimonio dell’Unesco, sono rotondi e presentano tre aree concentriche distinte: la più esterna è destinata ai fedeli e quella in mezzo ai sacerdoti. La parte più interna, e inaccessibile, è il Sancta Sanctorum che conserva copie dell’Arca dell’Alleanza, di cui racconterò più avanti.
Sono per lo più realizzati in fango e paglia, ma custodiscono al loro interno coloratissimi e vivaci dipinti murali che raccontano tutto l’insieme di storie e leggende legate alla ricchissima schiera di santi della cristianità ortodossa etiope. In ogni luogo di culto ad accogliermi ci sono i monaci con la loro grande croce di legno o metallo, il loro bastone, la loro intonsa (nonostante la polvere e il fango) tunica bianca e il loro particolare copricapo.
Sono loro a farmi notare, sulla cima del tetto, le grandi croci ornate con uova di struzzo e le particolari campane per richiamare i fedeli alla messa: grossi massi appesi con delle funi a una struttura in legno che, percossi con dei sassi, emettono un profondo suono udibile in tutta l’isola.
Ancora affascinata dal magico misticismo di questi luoghi sacri, mi trasferisco a Gondar, l’antica capitale dell’Impero etiope.
Circondata da terre fertili e crocevia di importanti strade carovaniere, fu scelta dall’imperatore Fasiladas nel XVII secolo come capitale e divenne presto una città ricca e fiorente. A testimoniare lo sfarzo di quei tempi, ci sono ancora gli antichi palazzi, i castelli, le piscine.
Tra questi, la residenza dell’imperatore, una perfetta e insolita sintesi di influenze indiane, portoghesi, moresche e aksumite.
Come in tutto il Paese, numerose sono le leggende legate a questo luogo. Quella che più mi ha colpito racconta di un gigantesco sciame di api che si sollevò dalla Chiesa di Debre Berhan Selassie preservandola dal saccheggio ad opera degli infedeli.
E meno male!
Perché è veramente di una straordinaria bellezza con i suoi dipinti che ornano pareti e soffitti, racchiudendo tutta l’iconografia religiosa, il folclore e la cultura locale.
A proposito di leggende, quando arrivo ad Axum mi rendo subito conto che sono in un luogo di enigmi e di radici storiche che si perdono nella notte dei tempi.
Qui tutto è mistero.
A partire dalla mitica Regina di Saba, in Etiopia nota come Makeda, che sarebbe vissuta proprio qui, in quella che nel X secolo a.C. sarebbe stata addirittura la capitale del suo regno. La ricchissima area archeologica della città comprende infatti quella che doveva essere la sua residenza oltre che la sua piscina.
Ma ciò che più affascina ad Axum è la necropoli, un’area vastissima ricca di tombe e delle famose steli. Calarsi nelle ampie stanze sotterranee, splendidamente conservate, per visitare le tombe è davvero un’esperienza straordinaria.
Anche se sono state saccheggiate, conservano il loro alone di mistero con i passaggi segreti che le collegano e con quelle pietre perfettamente lavorate risalenti a molti secoli fa.
E pensare che più del 90% dei tesori archeologici del luogo non è ancora stato portato alla luce… Camminare tra le steli, poi, è emozionante.
Come le piramidi, gli enormi monoliti servivano a mostrare al mondo l’autorità e la magnificenza delle dinastie regnanti.
Alcuni sono in piedi, altri rovesciati, ma nonostante questo emanano ancora il magnetico potere per cui sono stati costruiti, come non si sa, e plasmati e incisi in maniera superba.
Ma torniamo alla regina di Saba e a un delle leggende a lei riferite.
Si narra che si recò a Gerusalemme in visita a Re Salomone che, affascinato dalla bellezza donna, riuscì a trascorrere una notte con lei. Secondo la tradizione etiopica, nove mesi dopo nacque un bambino, Menelik I, da cui discende in linea retta l’intera dinastia reale del Paese.
Ma c’è molto di più! Anni dopo, Menelik si recò a trovare il padre e quando tornò ad Axum portò con sé l’Arca dell’Alleanza, fino ad allora custodita proprio nel Tempio di Re Salomone.
La leggendaria ed enigmatica cassa di legno rivestita d’oro che conterrebbe le tavole della legge dettate da Dio a Mosè e il segno visibile della presenza della divinità sulla terra, è ora conservata in una cappella, posta tra le due chiese della città, ed è l’importantissimo oggetto di devozione per tantissimi etiopi.
E’ talmente importante che, ovviamente, non è possibile vederla e l’ingresso nella brutta cappella è severamente vietato a tutti, fatta eccezione per il monaco custode. Vale comunque la pena di avvicinarsi, fin dove possibile, all’edificio, anche solo per osservare le manifestazioni di fede dei numerosi pellegrini.
E questo viaggio tra un remoto passato e il presente non poteva che concludersi in quella che è considerata una delle località più affascinanti del Pianeta, Lalibela.
Anche sull’origine di questo straordinario sito dell’Unesco, le leggende si sprecano. La più diffusa racconta di un principe che, avvelenato dal fratello, fu trasportato in cielo dove gli fu mostrata una città magnifica e dove Dio gli ordinò di tornare sulla terra per ricreare ciò che aveva visto.
Così, diventato re, con l’aiuto degli angeli, riuscì a realizzare in un solo giorno quello che adesso è possibile visitare. In realtà, Lalibela prese il nome dal più famoso dei suoi sovrani, quello che l’ha costruita quando, caduta Gerusalemme in mani di infedeli, decise di riedificare la città santa qui, sull’amato altipiano dove aveva la residenza.
Dodici incredibili chiese ipogee, in cui devotissimi pellegrini seguono le continue funzioni sacre, con una professione di fede così profonda da commuovere. Non solo gli edifici rupestri, scavati nel tufo basaltico, lasciano senza parole.
E’ tutto l’insieme ad incantare.
Gli stretti passaggi tra le rocce, le cripte e le grotte, i dettagli delle costruzioni, i ponti che le collegano, i cortili stretti tra le pareti strapiombanti e i muri delle chiese, i sacerdoti, avvolti in velluti damascati, che impartiscono benedizioni poggiando enormi croci sulle teste inchinate dei fedeli, che qui arrivano da tutta l’Etiopia.
Sono vestiti di bianco, uomini, donne e bambini, qualcuno porta colorati ombrelli ricamati con fili d’oro e d’argento, recitano litanie e musicali preghiere, accompagnati da tamburi e dal battito delle mani.
In Etiopia le preghiere si trasformano in danze, in processioni tra luoghi che, anche nei toponimi (Calvario, Giordano, Tomba di Adamo, Golgota, ecc.), ricordano la lontana Gerusalemme. I riti del cristianesimo più austero e più antico. Avevo letto di questa città, così strana, così unica, ma quando me la sono trovata davanti ogni descrizione mi è sembrata riduttiva.
Occorre andarci. Per capire, per scoprire, per emozionarsi.
Dopo aver visitato questi capolavori architettonici, sulla cui datazione e sulla cui realizzazione, è ancora aperto il dibattito, mi siedo su una roccia sopra il “buco” che contiene la splendida chiesa monolitica di Bet Giyorgis, l’unica ad avere la pianta a forma di croce, che da quassù è bene visibile.
Il sole sta tramontando e i colori si accendono. Dietro di me alcune abitazioni tipiche, tucul a due piani, realizzati a secco, al di fuori dei quali alcuni maestri pittori insegnano agli allievi a dipingere su pelli le figure della tradizione sacra.
Davanti a me la Chiesa di San Giorgio, patrono dell’ Etiopia, simbolo di una cristianità che non si vuole arrendere.
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