Sabbia, sabbia rossa dappertutto. Sui vestiti, nei capelli, nell’aria.
Salgo faticosamente. I piedi affondano in un mare vermiglio, mentre il vento fa volare i granelli intorno a me.
Raggiungo la cima della Duna 45. Una delle più alte. Lo sguardo spazia su uno dei deserti più antichi del mondo: il Nabib.
Il mio viaggio incomincia da Sossusvlei, un luogo straordinario, dove la spietatezza della natura, dà vita a un paesaggio surreale.
Un mondo a sé. Ai piedi delle alte dune, il cui colore varia dal rosa all’albicocca per la composizione ferrosa della sabbia e per la sua ossidazione, i tracciati di fiumi e pozze d’acqua “effimeri”, cioè per lungo tempo (anche anni) completamente asciutti.
Qui la crosta più superficiale è screpolata, spaccata dall’arsura e, a causa della sua salinità, assume un colore bianco o grigiastro che contrasta nettamente con le dune circostanti. Ma c’è di più.
Qua e là, spuntano scheletri di acacie, neri. Sembrano carbonizzati, in realtà sono solo rinsecchiti. Un tempo oasi, come la Deadvlei.
Un antico fiume, cambiando il suo corso, ha lasciato dietro di sé questo affascinante scenario di morte. Morte apparente però, perché questo deserto, in realtà e incredibilmente, è pieno di vita.
Qui vivono infatti specie animali che hanno saputo adattarsi all’aridità della zona. Rettili, artropodi, uccelli e persino mammiferi. Ecco infatti, da dietro una duna, spuntare un curioso orice che fissa il suo sguardo nel mio. Pochi istanti e se ne va da dove è venuto, in questa immensità di sabbia collinosa e di croste saline.
Ci starei per più tempo in questo luogo alieno, ma è tempo di partire per raggiungere la costa atlantica, altra meta imperdibile della Namibia.
Lungo il percorso, nel Naukluft Park, mi fermo per ammirare la Welwitchia Mirabilis, una pianta unica al mondo.
Quella che ho davanti sembra abbia più di 1500 anni. Appartiene alla famiglia delle conifere, ma è completamente diversa dai pini e dagli abeti. Le sue uniche due lunghe foglie, enormi, si allungano sul terreno aridissimo, si sfilacciano e si contorcono e servono per assorbire l’umidità della nebbia che si condensa sopra di loro.
Sono lo strumento di cui questo miracolo della natura si serve per sopravvivere in un luogo così ostile. E non meno inospitale, almeno all’apparenza, è la costa oceanica, dove il deserto si butta direttamente nella acque impetuose.
A Swakopmund, cittadina coloniale che sa di Svizzera per il suo ordine, la sua pulizia e le sue casette colorate, visito la Kristall Gallery.
La Namibia è infatti famosa per le sue pietre preziose (in primis i diamanti) e semi-preziose.
Nel museo ad esse dedicato è conservato tra l’altro il quarzo più grande del mondo. Un brillante grappolo che pesa più di 14 mila kg e pare essere vecchio almeno 500 milioni di anni.
Non resisto alla tentazione e nell’adiacente negozio compro una coloratissima pietersite (che si trova solo in Namibia) e altre pietre semipreziose che qui per altro costano davvero poco. Vicino alla cittadina-porto fondata dai tedeschi alla fine dell”800, in una baia dalle acque profonde, sorge Walvis Bay, il cui nome deriva dall’olandese e significa “Baia delle balene”.
Salgo su piccola imbarcazione e navigo tra pellicani, fenicotteri, delfini e soprattutto otarie.
Al riparo dai violenti flutti oceanici, ci fermiamo per gustare uno spuntino a base di ostriche, crostacei e molluschi appena pescati. All’improvviso la barca traballa e dalle acque salta accanto a noi Casanova, una simpatica otaria che per nulla intimorita dalla nostra presenza ha deciso di condividere con noi il banchetto.
Naturalmente, per lei, sono pronte sardine e acciughe. Il capitano ci spiega che Casanova non è addomesticata, ma che spesso, opportunisticamente, fa queste visite ai turisti… Le foto si sprecano per immortalare un incontro divertente e inaspettato.
Tornati a riva, percorriamo un tratto della Skeleton Coast. Gli “scheletri” cui fa riferimento il nome sono i relitti delle numerose navi che hanno dovuto fare i conti con acque pericolosissime. A causa del vento, infatti, le dune di sabbia avanzano nel mare e formano banchi sottomarini, difficili da identificare e mappare, contro i quali, ancora oggi, molti natanti si incagliano.
Mi tornano alla mente le pagine lette anni fa dei primi romanzi di Wilbur Smith, ambientati proprio qui.
Mentre passeggio sulla sabbia di Cape Cross, a poca distanza da una colonia di centinaia di foche, ripenso a quei leoni che si spingevano fino in riva all’oceano proprio per catturare queste facili prede.
Tutto sommato era meglio quando finivano nelle fauci delle belve. Ora il destino di molte di loro è essere uccise perché la loro pelle è utilizzata per creare oggetti di moda … e, ci dicono, gli italiani sono dei grandi importatori di questo prezioso materiale…
Il viaggio prosegue. Lasciamo la costa e ci inoltriamo nel Damaraland, terra desolata e affascinante, con piste polverose che si incuneano tra rocce e monoliti. Terra che nasconde un vero e proprio tesoro: il sito di pitture e incisioni rupestri di Twyfelfontein.
Il luogo prende il nome da una sorgente “incerta”, nel senso che l’acqua è scarsa, ma è pur sempre preziosa in mezzo a un deserto. Proprio la sua presenza è quindi stata determinante per dare vita a un insediamento umano che risale probabilmente a circa 5000 anni fa e che ci ha lasciato una testimonianza di incredibile valore antropologico.
I graffiti e le pitture rappresentano per lo più animali selvatici e domestici, impronte, scene ci caccia e di vita quotidiana. Sono stati rinvenuti anche utensili, focolari e pietre focaie.
Poco distante, la Namibia cela altre meraviglie. La spettrale “Montagna bruciata”: una collina nera, carbonizzata, che si è formata più di cento milioni di anni fa per una reazione chimica dovuta all’incontro tra il magma vulcanico incandescente e il terreno argilloso.
Per raggiungerla, bisogna percorrere un canyon in cui un enorme masso di basalto modellato dal tempo ha dato origine a migliaia di strette lastre di pietra che sembrano canne di organo, le “Organ Pipes”, appunto.
Non ancora stanca di stupirmi visito anche la Foresta Pietrificata, dove numerosi grossi tronchi di alberi, fossilizzati e ben conservati, giacciono sdraiati a ricordo di una violenta alluvione che ha colpito la zona milioni di anni fa.
Ma sono in Africa e Africa vuol dire animali.
Mi sposto poco più a Nord, nel selvaggio e primitivo Kaokoland.
Con una jeep aperta percorro una pista sabbiosa per raggiungere il letto di un fiume ora secco, ma che sotto la superficie riarsa trattiene ancora acqua sufficiente per garantire nutrimento a cespugli e alberi ancora verdi.
Fermi e zitti aspettiamo.
Sentiamo un rumore sordo e contemporaneamente vediamo una nuvola di polvere all’orizzonte.
L’attesa non è stata vana. Un branco di elefanti del deserto sta avanzando verso di noi, o meglio, verso la vegetazione sotto la quale ci siamo fermati. Hanno le zampe più corte di quelli normali, ma decisamente resistenti: per adattarsi all’ambiente desertico sono infatti costretti a percorre anche 50-60 km al giorno in cerca di acqua e cibo.
Sono una ventina, di tutte le taglie, alcuni piccolissimi, guidati dall’elefantessa più anziana che con il suo incredibile fiuto è riuscita a guidarli qui, per garantir loro il pasto quotidiano.
L’aspro Kaokoland, oltre che ospitare animali, è la terra degli Himba.
Popolazione di pastori nomadi, fiera delle sue ataviche tradizioni, è l’etnia simbolo della Namibia. Dopo aver acquistato qualche dono (zucchero, farina, tabacco, sale …), la nostra guida parla con il capo villaggio e ottiene l’autorizzazione a visitare una delle “famiglie allargate” che popolano questa zona.
Ci sono solo donne e bambini. Gli uomini sono infatti fuori, al seguito delle mandrie di capre.
L’incontro è emozionante e interessantissimo dal punto di vista etnografico.
Apprendere le loro tradizioni, ascoltare le loro leggende, osservare il loro stile di vita mi affascina, così come mi affascina osservare i corpi statuari, completamente ricoperti di un impasto di grasso mescolato alla rossa polvere dell’ocra del luogo e ad erbe aromatiche.
Non è solo gusto estetico, serve, ci spiegano, a contrastare l’invecchiamento della pelle dovuto all’implacabile sole di queste latitudini e come repellente contro gli insetti.
Certo, l’odore che ne deriva non è proprio gradevole e, nelle capanne di rami intonacate con fango e sterco in cui gli Himba abitano e in cui conservano gli alimenti, è quasi insopportabile.
Vale la pena, comunque, di sopportarlo per capire, per conoscere, per imparare. La loro religione animista, per esempio, che prevede, al centro del villaggio, il “focolare sacro”.
Deve rimanere sempre acceso perché rappresenta lo spirito protettivo. E questo è un compito della donna più anziana. Che poi, probabilmente, tanto anziana non è.
Mi sembrano tutte giovani e belle queste “donne rosse”, con le loro acconciature, i loro gonnellini di pelle, i loro monili. Molte sono incinta e chiedono a una mia amica medico di toccar loro la pancia e di dire quando nascerà il bambino e che sesso avrà…
E’ difficile far capir loro che ci vorrebbe un’ecografia! Salutiamo questi ospitali e simpatici Himba perché c’è un altro luogo che dobbiamo assolutamente visitare prima di terminare il nostro viaggio.
E’ l’Etosha National Park, un paradiso per gli amanti dei safari.
Il paesaggio è molto vario: fitte foreste, savana, pianure sterminate e soprattutto un grande deserto bianco salino.
Il nome Etosha, infatti, significa “il grande luogo bianco” ed è riferito a un’enorme depressione (5000 kmq) piatta e bianca che contrasta con il cielo blu e il paesaggio circostante.
Nella stagione delle piogge, l’area diventa un lago e l’acqua, evaporando lentamente, dà origine ai miraggi.
Non solo. In alcuni punti si formano delle pozze che, naturalmente, sono un punto ideale di osservazione per tutti gli animali selvatici. Mi fermo sulla riva di una di esse e vedo sfilare davanti a me gazzelle di tutti i tipi, zebre, giraffe, elefanti, struzzi, gnu, iene.
Lascio la pozza a malincuore, ma poco distante, sotto un’acacia enorme, scorgo una decina di leoni che stanno riposando pancia all’aria in attesa delle tenebre, l’ora della caccia.
Mentre mi sto domandando se sarà questa l’ultima immagine che mi resterà del viaggio, sotto un cielo infuocato dal tramonto africano vedo un gigantesco elefante solitario che lentamente si allontana nell’Etosha Pan, il deserto salino.
Le sue enormi zanne dondolano seguendo i movimenti del suo stanco corpo.
E’ vecchio, si è separato dal gruppo, mi spiega la guida, perché sta andando a cercare un luogo per morire.
Non mi intristisce questa immagine. E’ il ciclo della natura che si perpetua. Una leggera malinconia mi avvolge, l’elefante sparisce all’orizzonte. Come un miraggio.
Domani tornerò a casa e forse, in valigia, troverò un po’ di sabbia rossa.
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